domenica 31 marzo 2013

Romanzo Popolare

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«Bisogna averlo tutto,
tanto...anzi parecchio...
Per fare certe cose
ci vuole orecchio!»

Dedicata con veramente grande e infinita tristezza da "L'Armando", "Il Silvano", e " Il Palo", a Vincenzo Jannacci detto Enzo (Milano, 3 giugno 1935 – Milano, 29 marzo 2013)

In occasione della scomparsa dell'insostituibile e incasellabile Enzo Jannacci, un vero pezzo di storia meneghina "umana" e umanizzante, che già era purtroppo finita da tempo, la quale adesso se ne va anche nella figura del suo più splendido cantore, e vivido testimone di prima persona, non potevo esimermi dall'unirmi al commiato veramente sentito, scrivendovi queste righe al riguardo di una fra le sue migliori, fra le tante, "escursioni" e collaborazioni cinematografiche.

Vi parlo di "Romazo popolare", diretto nel 1974 da Mario Monicelli, per il quale Enzo oltre a comporre la colonna sonora e i lirici testi testi delle canzoni assieme all'inseparabile Beppe Viola, collaborò anche alla stesura dei dialoghi per la sceneggiatura di Age e Scarpelli più Monicelli, che vinse il David di Donatello 1975 come Miglior Sceneggiatura Originale.

Purtroppo non ho potuto rivedere il film, a tanti anni dalla sua ultima visione, a causa delle numerose scene di sesso, quindi chiedo al lettore di perdonare eventuali errori e/o omissioni dettate necessariamente da stupide fallacità della mia imprecisa memoria. "Romanzo popolare" è una commedia seppur amara abbastanza inserita nel solco di quella che fu la commedia italiana degli anni '70, abbastanza liberamente discostante per la maestria (seppur egli sostenesse "di che?")della regia di Monicelli qui al suo meglio, della recitazione di un perfetto e ispirato Tognazzi, e appunto, della sceneggiatura e dell'apporto come sempre geniale e lunare di Jannacci in veste di musicista e finanche ispiratore di temi e situazioni della "milanesità" di eroi proletari e più o meno esclusi e romantici.


"Romanzo popolare", tanto per dire, non è una commedia sexy anni '70 inserita nel contesto della fabbrica e dei proletari (cioè come quelle dotate di artisti del calibro di Lino Banfi, Gloria Guida, ecc., contro le quali non vi è assolutamente nulla, ci mancherebbe), ma è talmente "alta" e "bassa" al contempo, che corrisposta al modello di commedie sexy di successo dei '70 testè citato, ne rappresenterebbe semplicemente la loro "morte" per manifesta inferiorità e inadeguatezza, in tutto e per tutto. "Romanzo popolare" è come ho cercato di spiegare, almeno per metà, anche un film piuttosto serio.

Il caposquadra in una fabbrica, Giulio Basletti, leader sindacale influente (Ugo Tognazzi), e da tutti coloro che sono attorno a lui percepito come un eroe della classe operaia e sia sessualmente che politicamente, dagli atteggiamenti molto "liberali" (il quale sostiene e a cui piace vantarsi di avere "assestato" almeno 3'000 donne, che sempre sia lodato e santificato!) decide di sposarsi all'età di 51 anni con una sua "figlioccia" di 17 la quale non aveva più visto dal giorno del suo battesimo e adesso decisamente "cresciuta", Vincenzina Rotunno – ma guarda un po'! (Questo potrà sembrare abbastanza perverso, ma dal momento che è interpretata da Ornella Muti sono sicuro che nessuno potrebbe compatirlo). Egli crede anche di avere atteggiamenti moderni e progressisti sul sesso, ma questi atteggiamenti sono messi a dura prova quando al ritorno da un viaggio, inizia a sospettare che la sua giovane moglie gli stia mentendo e abbia intrapreso una relazione con un giovin ufficiale milite della ancora militarizzata polizia conosciuto durante una violenta disputa sindacale e divenuto "amico", l'Agente Giovanni Pizzullo, interpretato da un allora ancora incredibilmente magro e belloccio, Michele Placido al semi-esordio. E diventa addirittura pazzo di gelosia (e come non capirlo?) quando realizza che i suoi sospetti possano benissimo essere giustificati.


Divenuto quindi "un vecchio cornuto", la sua reazione non sarà né potrà essere così "tollerante", e ordinerà alla giovanissima moglie di andarsene da casa, per andare a stare a casa dell'ufficiale di polizia.


I due uomini si batteranno per lei, ma alla fine ella se ne andrà da entrambi, così diversi e lontani in tutto e per tutto. Gli anni passeranno. Il poliziotto si sarà ovviamente sposato con qualcun'altra. Mentre Tognazzi cercherà con la massima malinconia dettata anche dall'avanzante età di "riaccendere" la storia d'amore con Vincenzina/Muti, la quale è nel frattempo divenuta addirittura una stilista di successo, quindi eponima stessa della donna "emancipata" e "liberata".


Certo, "Romanzo popolare" rientra appieno in una italianità filmica tipica di quel periodo storico, facendo sì che "l'eroe" protagonista è fondamentalmente un comunista donnaiolo, e sua moglie sia circa per la metà una tradizionale giovane ragazza italiana della classe operaia e sempre per circa l'altra metà una moderna femminista sgallettata per il "free love" anni '70. Purtroppo per lei, anche Placido seppur giovane si rivelerà avere una mentalità non molto più moderna di quella di un qualsiasi picciotto "broccolino" del Queens quale si possono vedere nei film di Scorsese come "Mean Streets", e quindi per alcune "gravitas", nei discorsi e nelle ragioni ella dovrà alla fine comportarsi e pronunciarsi non molto dissimilmente da come avrebbe potuto fare una Scarlet O'Hara, in merito ritrovatasi nel mezzo del guado ad una solamente supposta "moderna" Italia, lacerata tra le nuove e in avvento "dinamiche dell'"amore" e delle relazioni tra i sessi. Come commedia sexy, d'altra parte, non è così divertente quali le citate in apertura, né mi pare di ricordare sembra mirare a essere particolarmente eccitante (nonostante le diverse e infartuanti scene di nudo della Muti). Il film è però in definitiva di tutto rispetto e molto brillante e vividamente coinvolgente, nella sua aura pienamente rientrante di "commedia domestica" di quelli anni; vitale di quella milanesità che il Monicelli dei suoi film migliori in assoluto – e "Romanzo popolare" è fra questi, almeno per gli anni '70 – aveva già pienamente colto e restituito con "L'Audace colpo dei soliti ignoti" molti anni prima, e qui grazie anche all'apporto sempre attento alle realta' degli umili e degli emarginati, e altissimo di Jannacci, in una rielaborazione che colpisce, di alcuni degli elementi di "Dramma della gelosia: tutti i particolari in cronaca", realizzato da Ettore Scola alcuni anni prima.

Napoleone Wilson

sabato 30 marzo 2013

Themroc – Il mangiaguardie

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Themroc è un film stranissimo, assolutamente sconosciuto, costretto al dimenticatoio, nondimeno prezioso per capire un'epoca (gli anni Settanta) fratturata dalle numerose lotte politiche, arricchita da sperimentazioni in campo cinematografico, musicale e artistico, analizzata e sviscerata ormai da ogni punto di vista, ma senza che nessuno sia mai davvero riuscito a individuarne una univoca chiave di lettura. Il film di Claude Faraldo (attore francese, regista con dodici lavori all'attivo, tra cinema e televisione, nonché sceneggiatore di un certo livello, basti pensare a L'amore che non muore di Patrice Leconte) rappresenta in un certo senso l'incontro e (e lo scontro) tra tutte le dottrine politologiche del periodo, e il modo in cui esse si pongono in posizione antitetica l'una rispetto alle altre: l'interpretazione marxista della storia si accompagna, paradossalmente, alla sua revisione, mentre l'analisi sociologica, inserendosi nello spiraglio delle lotte civili del periodo e delle loro applicazioni teorico-pratiche, finisce per rimarcarne le zone d'ombra e forse, sotto sotto, l'inutilità imperante.

Themroc (Michel Piccoli) è infatti un operaio che non si sente rappresentato dal sindacato a cui appartiene, e che dopo un ingiustificabile rimprovero sul lavoro impazzisce e si mura nell'appartamento che condivide con l'anziana madre (Jeanne Herviale) e la sorella minorenne (Béatrice Romand). In nome di un'autarchia disperata e survivalista, l'uomo rifiuta ogni contatto con il mondo esterno, diviene l'amante della giovanissima consanguinea, e una volta terminate le scorte di cibo, apre un varco nella parete aggettante sul cortile interno della palazzina: l'abitazione sarà così trasformata in una vera e propria caverna sospesa al secondo piano, il cui unico ingresso è la voragine sul cavedio. Themroc sceglie le sue vittime tra guardie e poliziotti, organizzando laute libagioni con le loro carni saporite, alle quali partecipano la famiglia e la vicina di casa (Francesca Romana Coluzzi), presto divenutane l'amante in un riscrittura delle regole per la quale la promiscuità è ormai un obbligo morale. La gendarmeria interviene con la forza, ma i rivoltosi sono troppo tenaci, allora le autorità procedono per vie traverse, mandando un muratore (Patrick Dewaere) a sigillare l'ingresso per sedare l'insurrezione; ma anche questo tentativo fallirà miseramente, nel momento in cui il manovale, “ragionando” con il folle inquilino a colpi di cazzuola e ditate nel cemento, passerà dalla parte della rivoluzione, parteggiando per il cannibalismo, il sesso libero e una vita essenziale e primitiva. Presto la follia si propaga contro ogni misura repressiva, infettando i dirimpettai, che presto imiteranno il singolare facinoroso aprendo varchi nelle pareti, gettando rudimentali scale di corda per le strade, assassinando e fagocitando i rappresentati delle istituzioni reazionarie e conservatrici. Fino a raggiungere poi l'intera città e, forse, il mondo.

Il film ha una particolarità che lo rende unico nel suo genere: è completamente muto, o meglio, è parlato in uno stranissimo birignao fatto di suoni beceri, parole masticate o inventate al momento, versacci trogloditi come i suoi sgangherati protagonisti, gesti inequivocabili, altrettanto inequivocabili alzate di spalle, sopraccigli inarcati, singulti, boccacce, richiami e smorfie e rumorose pernacchie. Tutti urlano contro tutti, berciano, blaterano, mangiano, uccidono, si scaccolano, si accoppiano e ancora ricominciano tutto daccapo, fino a quando la pellicola, in bilico tra il grottesco e lo humour involontario, non diviene un'assurda, scanzonatissima riflessione sulla retorica classista del tempo: in un momento in cui l'operaio è lasciato completamente solo, schiacciato nella duplice morsa dell'oratoria sindacale e della tracotanza padronale, l'unica soluzione possibile è negare tutte le strutture economiche, fiscali e sociali che hanno condotto all'alienazione contemporanea. Non può esserci mediazione alcuna tra le parti in causa perché la società, ci dice il regista, è talmente malata che le ideologie ad essa sottese e in essa maturate non sono altro che specchietti per le allodole grazie alle quali le istituzioni manovrano i cittadini. Themroc estremizza il nichilismo dottrinale tornando al grado zero della civiltà, ovvero abiurando l'umanesimo e la centralità dell'individuo nello spazio collettivo e divenendo ancora, insieme ai consimili, un selvaggio dedito all'antropofagia più bestiale e incontrollabile. Il film di Faraldo è fondamentale per capire il presente, e anzi, con il suo eccesso visivo, colorato e cattivissimo, risulta ancor più tangibile e giustificabile oggi che nel suo contesto di riferimento.

Di sicuro un pugno allo stomaco del perbenismo, scomodo e incomprensibile per l'odierna sinistra (e proprio per questa ragione ad essa caldamente consigliabile) ormai riciclatasi negli usi borghesi e democraticamente moderati dell'attualità. Che Moretti ne tragga insegnamento prima di cianfrugliare a sproposito con papi e presidenti del consiglio.

Marco Marchetti








giovedì 28 marzo 2013

E la nave va

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Scritto da Federico Fellini e Tonino Guerra, coi testi delle canzoni di Andrea Zanzotto. Spiccano nel doppiaggio le voci di Ferruccio Amendola (il narratore Orlando, interpretato da Freddie Jones); Oreste Lionello (Sir Reginald Dongwy, interpretato da Peter Cellier) e Alessandro Haber (Aureliano Fuciletto, interpretato da Vittorio Poletti). Nel cast troviamo anche la grande ballerina classica Pina Baush (la principessa Lherimia). Alla scenografia troviamo Dante Ferretti, la cui carriera proseguirà brillantemente portandolo a vincere ben tre premi Oscar. Valeriano Trubbiani collabora alla realizzazione della corazzata. I cantanti lirici a bordo della nave, la Gloria N. in cui si svolge la storia sono interpretati da autentici tenori e soprane. Un film dove la musica ha una parte importante, con una colonna sonora che viene vissuta dai personaggi strambi che popolano la nave – felliniani, diremmo oggi. La locandina che riportiamo sopra alla rece è stata disegnata da Milo Manara.

La nave salpa da un porto italiano – Napoli, secondo la sceneggiatura – con rotta verso Erimo, una fantomatica isola dello Ionio. L'anno è il 1914 e proprio a bordo giunge la notizia che un attentato a Sarajevo ha provocato l'entrata in guerra dell'Austria-Ungheria contro la Serbia. I surreali ospiti borghesi e aristocratici del battello italiano sono in viaggio per rendere omaggio alla defunta cantante Edmea Tetua, di cui spargeranno le ceneri arrivati a destinazione. Nel bel mezzo del viaggio la storia incombe su di loro sconvolgendone la routine; giungono all'improvviso dei profughi serbi. Presto una corazzata dell'impero Austro-ungarico affianca la Gloria N. pretendendo la consegna dei profughi, questi verranno consegnati alla fine del viaggio.

Il film si apre e si chiude in bianco e nero, dando l'idea di una pellicola d'epoca, l'effetto, specie all'inizio è davvero perfetto. Tutto è molto teatrale, come l'introduzione – praticamente un musical – il mare increspato dalle onde in realtà è un telo argentato, benché bisogna stare molto attenti per accorgersene; la gallina che viene ipnotizzata da un ospite ed il rinoceronte ospitato nella stiva sono dei pupazzi animati; il sole che tramonta è finto quanto il mare, non a caso una passeggera esclama: «Che meraviglia, sembra finto!»; la corazzata è un modellino, oltre a questo ha un aspetto che non corrisponde a nessuna corazzata, molto retro-futurista, ricorda un ferro da stiro tempestato di cannoni. I personaggi sembrano usciti da un romanzo di Fitzgerald e danno proprio un'idea di decadenza sociale.

Un film tra i più belli di Fellini, che ha ispirato La leggenda del pianista sull'oceano di Giuseppe Tornatore. Per quanto riguarda l'allegoria inevitabile della “nave che affonda” portandosi dietro i rappresentanti di un'epoca verrebbe da esclamare: «Altro che Titanic!». Non ci spendiamo sui dialoghi e sui siparietti che si creano durante il viaggio, ci sarebbe da riempire pagine e pagine; sono da antologia, omaggiano vari generi, dalla commedia muta di Charlie Chaplin a quella più surreale dei Fratelli Marx. Verso la fine il film ha una breve deriva meta-cinematografica, con una visione del set e del regista nascosto dietro la cinepresa. Il narratore in barca assieme al rinoceronte fa pensare al surrealismo di Salvador Dalì.

Voto: Incommensurabile .


Giovanni Pili


mercoledì 27 marzo 2013

Psycho III

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«Liberate il vostro terrore. Liberate la paura. Ed entrate in un incubo tutto nuovo...»
«Norman Bates è tornato alla normalità. Ma la mamma è di nuovo sulla sua sedia a dondolo!»
«Proprio quando si pensava che fosse sicuro poter tornare sotto la doccia!»
«Norman Bates è di nuovo a casa con la mamma.»
«Il più sconvolgente di tutti.»
Frasi di lancio originali del film

Era prevedibile che dopo un sequel sorprendentemente ben realizzato e valido quale fu " Psycho II" (1983), si concretizzasse la possibilità di un ulteriore follow-up della storia di "Psycho" di Alfred Hitchcock, come immancabilmente avvenne. Anche perché, lo stesso Norman Bates, Anthony Perkins, prese la sedia del regista per il terzo capitolo della saga sull'esistenza triste e temibile allo stesso tempo di Norman. Essendo stato Norman all'epoca per quasi trent'anni (e anche per aver lavorato con registi leggendari come Alfred Hitchcock, Stanley Kramer, Jules Dassin, e Orson Welles, fra gli altri), non c'era probabilmente nessuno più qualificato di lui dirigere questo nuovo episodio. Mentre Perkins non si eleveràd'accordo, alle altezze cinematografiche di questi giganti dello schermo, lui e lo sceneggiatore Charles Edward Pogue (che proprio di seguito avrebbe anche scritto la sceneggiatura de "La Mosca" di David Cronenberg, e non so se mi spiego ), avrebbero però impostato un film che anche restando sotto molti aspetti dentro alle mode del genere del periodo, offre un'esperienza horror che, pur lungi dall'essere perfetta, ispira nella memoria dello spettatore ben di più che la sua quota di brividi e salti in gola.

"Psycho III" è ambientato solo un breve periodo di tempo dopo gli orribili eventi di "Psycho II". Il film inizia con una sequenza molto bella dall'ambientazione e dalla scenografia (opera nientemeno che di Henry Bumstead, scomparso a 95 anni e attivo fino all'ultimo, uno dei più grandi scenografi americani fin dai celebri e maggiori titoli della Hollywood degli anni '40, e fino a quasi tutti i più grandi film da regista di Clint Eastwood, del quale è stato uno dei principali e più importanti collaboratori, "Gran Torino" [2008] compreso) le quali sono una fedele riproduzione-citazione del convento e del celebre campanile di Santa Mira ne " La Donna che visse due volte" (Vertigo, 1958) di Alfred Hitchcock.


Il convento citato si trova non lontano dal Bates Motel, e una novizia Maureen Coyle (Diana Scarwid) , durante il proprio tentativo di suicidio uccide accidentalmente la madre superiora, che precipita per salvarla. Maureen lascia dunque il convento in disgrazia e ancor più in stato di disperazione, e intoppa pure in un passaggio sotto la pioggia da parte di un musicista poco di buono, Duane Duke ( Jeff Fahey), che tenta invano persino di approfittarsi di lei, prostrata com'è. Ella viene dal gentiluomo quindi abbandonata con la sua valigia e buttata fuori dall'auto sotto una pioggia torrenziale, allontanatasi trova casualmente sulla sua strada il Bates Motel in cui Norman Bates (Anthony Perkins, off course)ha ingaggiato Duke come assistente. Una volta lì, lei e Norman iniziano una storia d'amore, ma lo spettro della Madre continua a ossessionare Norman e minacciare chiunque sia in grado di catturare il suo amore.


L'aspetto più notevole di "Psycho III" è la sorprendente direzione dell'adepto Anthony Perkins. Egli si è mostrato dietro alla macchina da presa fiducioso e dalla forte abilità, svolgendo molto più che il mero e semplice compito di seguire gli attori. Perkins ci ha offerto un film che come ricordato per il suo inizio, non solo inevitabilmente riconosce l'influenza e la maestria di Hitchcock, ma possiede anche alcune scene che sono propriamente in uno stile d'intrattenimento di suo “hitchcockiano”.

Nella menzionata sequenza prima dei titoli di testa, e in cui vengono introdotti i personaggi, abbiamo la novizia Maureen, che appare dalle tenebre mentre la sentiamo urlare "Non c'è nessun Dio!". Abbiamo poi una dissolvenza che ci svela subito dopo Maureen seduta in cima a un campanile, piangendo e implorando perdono. Ben presto la sua Madre Superiora arriva da lei e inizia a urlare e afferrarla. Elle si accapigliano, e, come detto in un evidente omaggio a "Vertigo", la Madre Superiora precipita dal campanile e muore. Si è trattato di una mossa audace per Perkins, citare già al primo minuto uno dei migliori e più noti thriller di Hitchcock, ed è anche una introduzione forte ad uno dei personaggi principali dell'intero film. Detta sequenza dimostra molto graficamente che Maureen è un personaggio il quale si porterà dietro una grande quantità di dolore, e così fornendo anche un sorriso molto dark su tutti i volti degli ammiratori di "Hitch".

Mentre Perkins è ovviamente in debito con Hitchcock, egli non si limita a copiarlo però pedissequamente. Perkins ci offre, per esempio, un tocco di assoluto prestigio in occasione di una nuova interpretazione della famosa scena della doccia. Norman è infatuato di Maureen, ma la mamma decide che deve morire. Vediamo i vestiti della mamma di Norman e la sua vestizione, mentre allo stesso tempo si assiste ai preparativi di Maureen per fare il bagno. Come la Madre fa lentamente il suo ingresso nella stanza della doccia, Perkins ricrea quasi inquadratura per inquadratura le scene di Janet Leigh che si sta preparando per la doccia mortale di tanti anni prima. La Madre finalmente arriva e scosta indietro la tenda della vasca. Tuttavia, invece di Maureen accoltellata a morte, ci troviamo di fronte a Maureen sdraiata nell'acqua e che si è appena tagliata i propri polsi. Maureen guarda verso la mamma, e in uno stato delirante, la vede come la Vergine Maria. La magia di questa scena è il modo in cui Perkins fuorvia completamente noi spettatori. Ci aspettiamo di vedere la Madre attaccare Maureen allo stesso modo in cui aveva attaccato il personaggio di Janet Leigh in “Psycho”, e invece la salverà e facendola portare all'ospedale. Quando vediamo che Maureen ha tentato di uccidersi, coglie la Madre/Norman e noi spettatori, completamente alla sprovvista. Questa è stata una scena eccezionale che non solo ci mostra che l'esordiente regista Perkins aveva imparato molto da Hitchcock su come fuorviare il pubblico, ma anche che egli ha saputo adottare e bene l'umorismo nero del Maestro.


Questo è evidente anche in una scena un po' più avanti nel film. Perkins ci mostra ancora una volta una forte capacità di indurre in errore il pubblico assieme ad un umorismo ancora più dark. Norman ha ucciso una cliente e nascosto il suo corpo in un congelatore esterno. Lo Sceriffo Hunt ( Hugh Gillin) è sulla scena per indagare in merito alla scomparsa della donna. Egli ha erroneamente deciso che Norman non è responsabile per la sparizione della ragazza e, pur sostenendo una discussione con la giornalista Tracy Venable (Roberta Maxwell) che cerca di convincerlo del contrario, nel suo giro casualmente si ferma ad aprire il coperchio del congelatore e prende un po' del ghiaccio. Non vedendo il volto della donna nella ghiacciaia, si mette anche uno o due pezzi del ghiaccio insanguinato in bocca. Continuiamo nella sequenza riducendosi agli sguardi preoccupati di Norman come a quelli dello sceriffo che continua nella sua bigotta lezione alla giornalista. Sbattendo poi il coperchio per chiuderlo e andandosene via, non avendosi mai reso conto che la vittima la quale stava alacremente cercando era lì adagiata ad un metro da lui. Questa scena utilizza la famosa teoria della “bomba che non scoppia” di Hitchcock unita ad un risultato malato e disgustosamente bizzarro , ed è una delle scene che più si ricordano del film.


Per tutto di esso, Perkins evita anche di esercitare un lavoro della macchina da presa che sia appariscente o elaborato a favore di semplici e lineari movimenti della camera. Egli non vuole stupirci con la cinepresa, ma vuole invece ingannarci e manipolarci. La sua direzione in questo film ci mostra un regista che capisce molto bene come realizzarlo e anche come farci sorridere in modi totalmente dark, ma anche con una certo e ben percepibile velo di tristezza.

E' una fortuna che la regia di Perkins sia stata di un livello superiore, in quanto i personaggi del film, con l'eccezione di Norman, non sono molto sviluppati come avrebbero potuto. Duane Duke (interpretato da un giovane Jeff Fahey) non è molto di più di una sorta di Han Solo dell'abbronzatura e per l'altra metà un personaggio saturo di battute deboli e dalla cattiveria per amore della cattiveria. Nel corso della storia, Duke non assurge mai a diventare molto più di un dispositivo di sceneggiatura per motivare altri personaggi. Non abbiamo mai a imparare molto di più su di lui a parte che è un vagabondo spiritoso, e che è molto protettivo della sua chitarra. La performance di Jeff Fahey non aggiunge molto alla caratterizzazione stessa da parte dello script del personaggio di Duke. Fahey è al solito competente, ma alla fine è il personaggio ad essere deludente e a non sostenerlo. Virando selvaggiamente dallo stupratore vizioso al simpatico farabutto, facendogli sgranare selvaggiamente i suoi grandi occhi azzurri,cercando così di sembrare un "duro".

Tracy Venable è anch'essa poco più dell'abbozzo di un personaggio reale. La sua funzione è quella di scoprire la verità su Norman e l'omicidio compiuto in “Psycho II”, e per cercare di proteggere Maureen da Norman. Ancora una volta, su di lei non veniamo a sapere quasi nulla. Roberta Maxwell offre poi come Tracy la performance più debole del film. Ella sorride poco convincente nella costruzione del personaggio e sembra eccessivamente preoccupata per Maureen prima ancora che davvero possiamo sapere qualcosa di lei. Come Duke purtroppo, non riesce a superare le sue funzioni nel plot, mentre le deboli battute quali le fornisce lo sceneggiatore Charles Edward Pogue, sono un sostituto alquanto povero per un personaggio reale.

Il personaggio più riuscito del film è altrimenti quello di Maureen Coyle. Il film, dalla prima battuta, mette grande impegno nel delineare con attenzione ai dettagli, la crisi spirituale di Maureen. Anche se, dopo il suo tentativo di suicidio e l'ammissione a un sacerdote che pensa di aver visto la Madonna quando in realtà era “La mamma/Norman” non proprio e sotto ogni aspetto, la Vergine Maria, questa stessa “stravaganza” è quasi completamente abbandonata.


Poi diventa in seguito solamente la donna per la quale Norman deve cadere innamorato. Si tratta del triste spreco di un aspetto visionario del personaggio che poteva essere molto interessante.
L'interpretazione di Diana Scarwid è complessa da analizzare. Ella interpreta in modo molto efficace il dubbio del personaggio e la sua confusione, spesso piangendo e urlando pateticamente. Sembra anche molto impotente di fronte a Duke. Tuttavia, dopo una notte fuori con Norman, la Scarwid dipinge Maureen come una vittima tipica dei film horror, difatti anche dopo aver appreso la verità sul passato di Norman, ella lo guarda con un sorriso luminoso, che non mostra alcun segno di apprensione.

Piuttosto quindi che offrirci caratteri forti e misteriosi, Pogue ci tratteggia invece dei sottili schizzi di personaggi stereotipati. Il film non può così spingersi per la sua strada nel territorio vero di “Psycho” (come già fu “Psycho II” anche in questo caso) con i personaggi deboli con cui si presenta.

Il culmine del film è purtroppo gestito da una risoluzione complessa che si basa su una trama già di per sé complicata. Tuttavia, nel corso della sua sceneggiatura, Pogue non fornisce al pubblico indizi sufficienti per capire che cosa c'è al fondo del mistero. Mostrandoci invece Tracy, in lacrime, la quale grida il nome Norman mentre egli si sta muovendo per uccidere. Questo momento è quasi impercettibile e il film deve essere visto più di una volta per capire veramente quanto è successo. Nel complesso, la maggior parte del copione sembra più simile a una prima bozza che doveva essere pensata in modo più chiaro. La sceneggiatura vorrebbe essere intelligente, ma è troppo imprecisa e la soluzione troppo arbitraria per renderla tale.

L'unica nota con la quale Pogue si stacca decisamente è grazie ala sua concezione di Norman Bates.. Egli vede Norman come un personaggio incredibilmente patetico che non vuole essere il mostro che è, ma è quasi incapace di aiutare se stesso. La sua storia d'amore con Maureen è dolcemente scritta, e assumiamo e sue parti quando prende una piega tragica. Pogue crea anche una simbolica decapitazione della Madre da parte di Norman, per poi poter così finalmente dichiarare che egli si è da lei liberato (però Perkins tradisce la "morte" della madre nell'ultima scena, in cui vediamo Norman tirare fuori il braccio amputato del cadavere della mamma e accarezzarlo prima di rivolgere per l'ultima volta all'obbiettivo il celebre sguardo maniacale). Se Pogue avesse avuto la stessa cura nell'infondere vita reale agli altri personaggi e alla scrittura di una trama più consistente, forse il film avrebbe potuto essere un classico degli anni '80, e non solo una voce seppur molto piacevole di un famoso franchise.

Ciò che dà veramente vita alla concezione da parte di Pogue del personaggio di Norman è senza dubbio l'eccellente interpretazione di Anthony Perkin.

Impersonando questo personaggio per la terza volta, Perkins sa già molto bene come usare la sua voce dolce e le sue inimitabili capacità per l'interpretazione di un comportamento nervoso, e per illustrare la guerra interiore in cui è invischiato Norman. Egli appare sempre come un personaggio patetico, piuttosto che spaventoso, il quale è guidato da forze fuori del suo controllo. C'è un preciso momento del film in cui siamo in grado di vedere la sua faccia che s'illumina brevemente, ed è quando una ragazza che sta trascorrendo la notte con Duke lo invita alla festa con loro, quasi subito Perkins posticipa il suo caratteristico sguardo di orrore e di vergogna al solo pensiero. Vediamo anche come Norman sia pieno di rimorsi e attenzioni per le sue vittime come quando bacia un cadavere appena prima di occultarlo. Forse lo fa andare appena un po' troppo sopra le righe il finale, (che comunque è un bel finale e venne rifatto da Perkins su richiesta della Universal) quando lo vediamo parlare con la voce della mamma, ma quasi subito come redimendosi, onestamente mostrandoci tutta la sua angoscia e la rabbia quando "uccide" la mamma e ne decapita il corpo impagliato. Perkins offre da par suo quindi la migliore prova del film e, insieme con la sua regia sorprendente, fa sì che “Psycho III “ sia stata nel complesso un'esperienza molto riuscita.

In definitiva, “Psycho III” pur se non eccezionale, è certamente un buon film. I suoi personaggi non sono molto più di stereotipi, e la sua trama è troppo complessa per cogliere con piena lucidità i suoi obiettivi, ma tuttavia, è da rimarcarne come Anthony Perkins abbia offerto una direzione dinamica e l'ennesima prestazione eccezionale nei panni di Norman Bates. Questo film può infatti occupare un proprio posto preminente nella serie di “Psycho” come il migliore dei sequel, ed è una degna continuazione della saga del Bates Motel.

La versione televisiva ha un inizio completamente diverso con i titoli che compaiono prima che appaia Maureen. Inoltre, la prima battuta sentita nella versione televisiva non è "Dio non esiste". Quando Maureen lascia il convento, la versione televisiva attraverso una narrazione fuori campo ci fornisce delle informazioni su Maureen. I titoli di testa in questa versione non vengono visualizzati mentre ella si sta incamminando per la strada.

Nella versione televisiva, la puttana non è in topless, ma indossa un asciugamano.
La versione TV offre spunti musicali diversi durante la prima inquadratura della casa e del Motel Bates. E' la stessa musica che compare alla fine del film quando Norman si trova nella macchina della polizia e viene portato via.


"Cry Of Love"
Musica di Carter Burwell
Scritta da Steve Bray & David Sanborn
eseguita da Carter Burwell , Steve Bray, e David Sanborn
MCA Records

"Mary Catherine"
Musica di Carter Burwell & Steve Bray
Scritta da Stanton-Miranda
Eseguita da Stanton-Miranda

"Dirty Street"
Musica di Carter Burwell & Steve Bray
Scritta da Steve Bray & Stanton-Miranda
Cantata da Stanton-Miranda
Academy of Science Fiction, Fantasy and Horror, Stati Uniti d'America Anno 1987 Nominato al Saturn Award per il Miglior Attore
Anthony Perkins
Miglior Film Horror

Il libro di Mary che compare nel film (intitolato "Nel ventre della bestia") è visto nella sporcizia, dalla casa di Norman.

Lo script originale aveva Duane come killer “copycat” degli omicidi di Norman Bates.

Come regista Anthony Perkins aveva originariamente voluto che Jeff Fahey fosse completamente nudo nella scena dei preliminari tra lei e Red, ma Fahey si sentiva troppo a disagio nell'essere completamente nudo davanti alla macchina da presa, per cui gli è stato permesso di tenere frapposte due lampade per coprire parzialmente se stesso.

Esordio registico di Anthony Perkins.

Perkins suggerì originariamente che il film venisse girato in bianco e nero come un omaggio all'originale Hitchcockiano del 1960, ma alla Universal si opposero .

Dopo il completamento, la Universal sentì che il film aveva bisogno di un finale migliore, con un tocco in più, in modo che Perkins fu richiamato per rigirare la scena finale

Lo stuntman Kurt Paul impersonò la "Madre", ad eccezione di quando alla fine effettivamente vediamo Perkins vestito come "Madre"(era la seconda volta che Perkins si vestì come la madre dal film originale). Ecco perché non si arriva a vedere il viso della mamma sullo schermo - il "suo" volto è volutamente sempre oscurato o nascosto nelle ombre.

La Universal pianificò l'uscita del film per il 14 febbraio 1986.

L'abito indossato dalla Madre nel film è lo stesso utilizzato in “Psycho IV”.

In un'intervista con la American Movie Classics appena prima della sua morte, Anthony Perkins ha ammesso che non era all'altezza del compito di dirigere questo film, sentendo essere la sua conoscenza tecnica troppo limitata.

Nel numero 57 della rivista Fangoria, lo sceneggiatore Charles Edward Pogue ha rivelato la trama del suo script originale. In questa versione, era Duane ad essere l'assassino ed era intenzionalmente venuto al Bates Motel perché era ossessionato da Norman. Maureen era una psicologa nevrotica che era venuta al motel come sostituta del dottor Raymond dal film precedente - Pogue aveva avuto l'intenzione di lanciare l'originale vittima Janet Leigh nel ruolo. La Universal respinse queste idee, sostenendo che Bates doveva essere l'assassino e che la Leigh sarebbe stata sbagliata per il film. Tuttavia, le azioni di Maureen sono rimaste praticamente invariate, il suo personaggio è stato semplicemente cambiato in una giovane suora.

Nella scena di nudo inferiore di Diana Scarwid è stata utilizzata la “Body DoubleBrinke Stevens.

Proprio durante le riprese di questo film, a Perkins venne diagnosticata la sieropositività all''HIV, quando andò in una clinica per una visita medica di routine.

Perkins originariamente voleva usare una donna controfigura per la scena in cui Duane getta Red fuori dalla stanza del motel. Juliette Cummins convinse Perkins a non usare una controfigura e fece da sé quella scena.

Il cadavere di Patsy nel contenitore del ghiaccio, si trovava veramente nel ghiaccio. L'attrice Kathy Shea aveva la pelle oramai blu e non era per il make-up, ma era davvero per il freddo patito durante le riprese di questa scena.

La giornalista Tracy Venable doveva originariamente essere più giovane. Tuttavia, quando Roberta Maxwell è stata lanciata nel personaggio, il personaggio è diventato più vecchio.

Quando riprese la scena in cui Norman sta colpendo Duke con la chitarra, Anthony Perkins ha effettivamente colpito Jeff Fahey così duramente che gli aprì la testa con un taglio che dovette essere richiuso con sei punti.

La famosa battuta di apertura "Dio non esiste!" è stata improvvisata sul set dall'attrice Diana Scarwid.

L'attrice Juliette Cummins venne quasi licenziata da Perkins dopo aver fatto una battuta involontaria sulla sua omosessualità.

Il film della saga di "Psycho" dal più basso incasso al botteghino con 14'481'606 di $ in tutto il mondo.

L'attrice Katt Shea ha ottenuto la parte di Patsy, perchè era stata sentita per come ha letto le sue battute di fronte ad un gruppo in attesa fuori dai provini.

Quando il film è andato in pre- produzione, Perkins ha chiesto che il regista di "Psycho II" Richard Franklin co- dirigesse il film con lui, ma Franklin rifiutò.

Il produttore Hilton A. Green ha detto di questo film che è il suo preferito almeno di tutti i sequel. Seppur gli è rimasta la sensazione che ci sia ancora troppa violenza grafica e nudità.

La principale ispirazione di Perkins per lo stile da imprimere a questo film è nata dal film "Blood Simple -Sangue facile", diretto dai fratelli Coen. Prima che la produzione fosse iniziata egli ha anche preso l'intero cast e la troupe per la proiezione del suddetto film.

Nonostante questo sia stato il debutto alla regia di Perkins, il cast e la troupe hanno dichiarato che è davvero stato un piacere lavorare con lui per tutta la produzione.

Lo sceneggiatore Charles Edward Pogue sostiene che Perkins aveva così tante idee da scrivere per il film fuori dalla lavorazione che lo avrebbe spesso chiamato a tarda notte per raccontargliele.

Napoleone Wilson

martedì 26 marzo 2013

Snowtown

5

Come molti altri ragazzi di Salisbury North, quartiere “borderline” dell'omonima (e anonima) provincia australiana, City of Salisbury, anche Jamie viene da una famiglia problematica: è orfano di padre, la madre vive di lavoretti saltuari e al giovane appena adolescente non resta che trascorrere le giornate bighellonando di rione in rione e prendendosi cura dei fratelli. Un giorno la donna affida i tre figli alle premure di un amico, che approfitta della situazione per abusarne sessualmente. Quando la verità viene a galla, la madre si lascia guidare dai consigli di un vicino di casa, l'apparentemente bonario John Bunting, un uomo vecchio stampo che dà ancora pane al pane e vino al vino, e che dinnanzi ai ritardi della giustizia tradizionale preferisce applicare la legge del taglione a chi commette reati su minori.
Tra pacche sulle spalle e affabili suggerimenti, l'uomo mostra un'influenza sempre maggiore sul timido Jamie, che in breve lo segue in ogni sua spedizione punitiva: dapprima gli improvvisati vendicatori si dilettano a pittare la casa del molestatore con scritte volgarissime e altrettanto volgari allusioni, quindi ne riempiono il patio di canguri morti e mutilati, fino al momento in cui l'uomo, colto da crisi di nervi, si lancia in una fuga precipitosa. Un pedofilo va trattato come si merita, tenteranno di discolparsi, ma presto il gioco sfugge di mano, e alle riunioni serali di Bunting partecipano sempre più persone arruolate tra conoscenti e vicini: l'argomento della discussione è come sostituirsi allo stato, e soprattutto quale pena comminare a ogni deviato e pervertito della zona. Ecco che in base alle voci, ai pettegolezzi, a degli informatori improvvisati votati al momento alla fedeltà della causa, un Bunting ormai sulla via del fanatismo trascina i suoi seguaci in una spietata caccia all'uomo, che non risparmia nessun diverso, dall'omosessuale al drogato al ritardato mentale...

L'hanno chiamata Snowtown, dal nome della cittadina australiana balzata agli “onori” della cronaca per i fatti delittuosi ivi compiuti tra il 1992 e il 1999 (nel caso specifico il ritrovamento, in un magazzino abbandonato, di un certo numero di barili contenenti resti umani), ma il titolo appropriato avrebbe dovuto essere The Master: non soltanto perché la pellicola di Justin Kurzel, esordiente, è più andersoniana dell'ipotetico, del tutto involontario, modello di riferimento, piuttosto per la sua quasi speculare similarità con l'ultima fatica del regista americano. Anche qui un maestro, lo straordinario Daniel Henshall, nella parte di John Bunting, omicida seriale nemico giurato di ogni forma di deviazione morale e sessuale, e anche qui un ottimo discepolo, James “Jamie” Vlassakis (un etereo e bravissimo Lucas Pittaway) che, pur combattuto da remore morali, finisce per calcare le orme del suo spietato mentore. Quella che Bunting organizza nel quartiere è una macchina perfetta di sterminio, fatta di tanta retorica, poca ideologia e ancor meno senso della misura, e all'interno della quale, come una gigantesca e viscosa ragnatela, ogni estremità è collegata con la successiva, un contatto (un travestito molto noto nella zona per le sue millantate frequentazioni di pervertiti e deviati) legato a doppio filo con una schiera di presunti colpevoli. La motivazione di queste battute è la preservazione dell'identità di gruppo, la verginità “etica” di una comunità già fin troppo vessata da abusi e molestie, ma quando Jaime e gli altri della combriccola (o della confraternita) si rasano la testa, è evidente che il retroterra culturale non è ascrivibile soltanto alla necessità di pensare da sé alla propria incolumità. C'è qualcosa di molto più grande, alla base, una missione che consiste nel liberare il mondo da tutto ciò che è diverso e quindi potenzialmente eversivo.

Kurzel inscena il suo dramma con una leggiadria piena di frastagliature, che comincia con una fotografia sporca, quasi amatoriale, a cui s'accompagna, per contro, una regia estremamente dimessa e minimale, fatta di sguardi più che parole, di cenni dissimulati e fragori nascosti tra mura domestiche sempre troppo spesse. È in questa consuetudine, così piena di tedio provinciale, di lontananza dal mondo civile, dagli stimoli come dalle opinioni, che esplode una violenza ancor più plumbea della vita di Jamie e della sua famiglia. Kurzel non risparmia nulla, dalle gole strangolate, ai soffocamenti alle torture di unghie strappate e carni peste e maciullate dalle botte. È cinema sovraccarico, il suo, carnefice di un'estetica “realista” che lavora per addizione all'interno di una cornice desaturata, di apparente (ma costruita) semplicità, e che al contempo si subordina alle esigenze di una recitazione paradossalmente equilibrata e ben concepita. Ciò che eleva il prodotto dalla mera capacità tecnica al podio del capolavoro è però l'aver saputo inscenare, in modo pressoché perfetto, la “teoria della rana”, una specie di metafora che non di rado viene sollevata quando si parla di lavaggio del cervello e/o reclutamento in sette religiose o gruppi di discussione a struttura clanica: se prendi una rana e la getti nell'acqua bollente, questa schizzerà lontana non appena il suo corpo entrerà in contatto con il calore, ma se prendi quello stesso animale, lo immergi nell'acqua fredda e pian piano lo lasci bollire accendendo un fuoco sotto la pentola, come per magia la rana non si accorgerà di nulla. Ed è ciò che fa Bunting con le sue vittime: le ammalia e le ipnotizza, si fa dapprima compiacente, allora decisamente ostile e, trattando chiunque con il pugno di ferro in guanto di velluto, dispensa promozioni e punizioni, riconoscimenti e biasimi con il medesimo criterio distributivo di un insegnante. Fino a quando il pupillo non condivide la stessa insania del maestro.

Snowtown non è importante per il suo (non) essere biopic movie, o per la possibilità che sottende di ricostruire un evento omicida con le fregiature ben intagliate del cinema d'essai, piuttosto per la straordinaria volontà di effigiare la logica, sottilissima ma estremamente persuasiva, che spinge l'uomo a giustificare il delitto per ragioni morali. E soprattutto a fare della giustizia una questione privata più che di stato, dietro la quale, in uno spazio infinitesimale, si cela il risolutivo senso di onnipotenza della follia.

Marco Marchetti







lunedì 25 marzo 2013

Mea Maxima Culpa: Silence in the House of God - Silenzio nella casa di Dio

9

«“Noi agnelli inermi contro il prete lupo” Il film-shock sulla pedofilia nella Chiesa»
Repubblica

Scritto e diretto da Alex Gibney, il documentario da voce a quattro non udenti che subirono abusi sessuali da parte di padre Lawrence Murphy direttore di un istituto religioso per sordi nel Milwaukee. Per circa 25 anni, a partire dalla metà degli anni '60, gli abusi proseguirono ai danni di oltre 200 bambini. Tutto questo nell'indifferenza del clero e della polizia. Nonostante la mole di prove documentate non solo padre Murphy ma anche altri come lui sono stati, di fatto, protetti dal Vaticano.

Terry Kohut , Gary Smith, Pat Kuehn e Arthur Budzinsky non hanno certo aspettato le tardive inchieste giornalistiche ed il documentario di Gibney. Fin da ragazzi hanno distribuito volantini nelle chiese per mettere in guardia i fedeli; inviato lettere ad Arcivescovi e Cardinali. Tutto finì in un dossier nelle mani dell'allora capo di quella che un tempo veniva chiamata Santa Inquisizione: Joseph Ratzinger, il quale fino all'ultimo si è ben guardato dal prendere provvedimenti seri. Eppure le testimonianze rivelano tutta la malvagità del prete cattolico; per esempio la scelta delle vittime tra quelle i cui genitori non conoscevano l'amer slang (il linguaggio dei segni usato in America).

Il documentario affronta altri casi coperti dalla Chiesa, come quello di John Geoghan, prete pedofilo di Boston; Bernard Law, trasferito nella Chiesa di Santa Maria Maggiore in Roma (Papa Francesco si è recentemente rifiutato di incontrarlo); è stato documentato un caso identico a quello di Milwaukee in un istituto per sordi di Verona, non viene riferito però il nome del prete pedofilo. Si fa notare nella pellicola che proprio i sordi sono delle vittime eccellenti, fino a pochi decenni fa venivano addirittura considerati dei minorati mentali. Vengono trattati anche i casi di padre Tony Walsh in Irlanda e Maciel Degollado, fondatore dei Legionari di Cristo, famigerato «tossico dipendente e molestatore» nonché amico di Giovanni Paolo II.

Si evince da tutto questo una sorta di tabù. Come se gli alti prelati, constatando che nessuno Spirito Santo intervenisse a redimere i preti pedofili durante il trasferimento da una parrocchia all'altra, attraverso il silenzio cercassero di reprimere una realtà che non possono accettare. Il regista è ancora più duro: «E' cospirazione ... come dimostra un documento vaticano scoperto di recente, conosciuto come crimen solicitiationis, secondo cui ogni abuso ecclesiastico che implichi la violazione del segreto della confessione debba essere tenuto segreto all'autorità civile e alle famiglie delle vittime, pena la scomunica». Del resto nel documentario si denunciano anche le intimidazioni ricevute dalle vittime, per indurle al silenzio, da parte di chi avrebbe dovuto prendere provvedimenti.

Alex Gibney decise di girare questo film a seguito dello scandalo scoppiato nei media americani, con un effetto domino in tutto il mondo, rivelando sempre nuovi casi; l'ultimo sussulto di questo terremoto è stato forse il Vatileaks in Italia. Merito di Gianluigi Nuzzi.

La voce dei principali testimoni è prestata dagli attori Jamey Sheridan, Chriss Cooper, Ethan Hawke e John Slattery. La pellicola è stata realizzata nel più classico e opportuno stile da inchiesta giornalistica, con filmati e testimonianze dirette. La HBO distribuisce a pagamento il film in streaming nel suo sito ufficiale.

Nonostante l'invito del regista nessun membro della Chiesa di Roma ha accettato di farsi intervistate. Ad oggi la Chiesa non ha ancora preso seri provvedimenti sul fenomeno; si sostiene che Ratzinger non abbia abdicato per questo – il ché forse non gioca a suo favore. Esistono motivazioni più serie? - l'attuale Pontefice è attualmente impegnato a nascondere i gioielli ed il servizio buono, ma tutti aspettiamo con ansia che, finita la campagna di marketing, cominci a prendere sul serio i doveri del suo mandato. Coi nostri migliori auguri.

Giovanni Pili

sabato 23 marzo 2013

Running - Il Vincitore

3

Dedicata alla Memoria del Più Grande di Tutti:
Pietro Paolo Mennea,
(Barletta, 28 giugno 1952 - Roma, 21 marzo 2013)

«Una storia in cui conta solo avere il coraggio di essere ciò che sei.»
Frase di lancio originale del film

In occasione dell'alquanto triste e molto prematura scomparsa di Pietro Mennea, uno degli italiani migliori e maggiormente "diversi" non solo per lo sport -pur non avendone affatto condiviso certi posizionamenti politici nella sua carriera appunto, di "politico"-,che il nostro sciagurato paese abbia potuto avere almeno nel dopoguerra, vi scrivo la rece di questo film che Mennea è immaginabile potesse ben amare, se mai abbia avuto occasione di vederlo."The Running- Il Vincitore" , una pellicola di produzione canadese diretta nel 1979 da Steven Hilliard Stern, e interpretata da un giovane ma già straordinario Michael Douglas, allora reduce dall'Oscar come produttore per "Qualcuno volò sul nido del cuculo" e dal successo come attore per "Sindrome cinese"(The China Syndrome)(1979) di James Bridges.
Egli non interpreta un velocista come il grande Pietro, ma un maratoneta canadese di origini greche dal nome Michael Andropolis, in gara alle Olimpiadi di Montrèal del 1976.

Bisogna subito anche parlare della colonna sonora ad opera del quasi sconosciuto compositore quebecois Andrè Gagnon, la quale è oltre a Douglas la cosa migliore del film. Dall'inizio alla fine, essa non ti permette più di staccarti da esso, tanto che anche se fosse stata di un John Williams o di un James Horner, essi non avrebbero potuto fare di meglio, e tanto ancora che è sempre un piacere vedere e rivedere questo film anche e soprattutto grazie al capolavoro compiuto da Andrè Gagnon.
Quando vidi la prima volta "Running -Il Vincitore" era il 1981, e il film era stato da poco distribuito in Italia, Mennea aveva appena stabilito il suo sensazionale e quasi immortale record del mondo di 19'72" sui 200 alleUniversiadi di Città del Messico di due anni prima, e aveva poi bissato con la strepitosa medaglia d'oro dei 200 alle Olimpiadi di Mosca del 1980, facendo per la prima volta appassionare e scoprire davvero ad un popolo come quello italiano, ubriaco di calcio, l'immenso valore e forse anche l'intrinseca superiorità di uno sport quasi per eccellenza individuale come il suo. In quel 1981 Pietro avrebbe annunciato il suo primo ritiro dall'agonismo, anche per dedicarsi maggiormente agli studi, ambito anche quello in cui avrebbe eccelso, finendo per conseguire addirittura 4 lauree 4, e cosa che gli fa ancor più onore, tutte in materie umanistiche.

Tornando al film, anche se i suoi valori di produzione possano essere considerati carenti per la limitatezza del budget, ho sempre pensato che la storia in sé sia una delle migliori mai portate al cinema per quanto riguarda il genere "sportivo" con il vecchio adagio e schema "del protagonista che alla fine in un modo o nell'altro, trionfa" nonostante le avversità enormi che la vita gli ha posto dinnanzi. Michael Douglas apporta davvero la vita al suo personaggio.
Un film in particolare mi ha sempre riportato alla memoria questo, ed è stato "Forrest Gump" (1994) di Robert Zemeckis per quanto riguarda la famosa parte della "lunga marcia" del protagonista Tom Hanks. Se si rivede il dvd di "Running", non è possibile fare a meno di pensare che la citata sezione di "Forrest Gump" sia stata derivata da questo film. Ciò è particolarmente evidente nella scena in cui Michael gareggia e un gruppo di bambini del vicinato partecipano alla sua "fuga" in testa. Anche un pò come nell'altrettanto celeberrima sequenza della corsa diRocky/Sylvester Stallone per le strade di Philadelphia, inseguito da un codazzo di bambini e ragazzi entusiasti lungoConstitution Avenue e sulle note di "Gonna Fly Now" di Bill Conti, in "Rocky II".Qualcuno potrebbe obbiettare come in questo caso che tale sequenza non è molto realistica, sarà, ma quant'è stimolante. Da quando infatti vidi questo film, ogni volta che vedo correre una maratona essa me lo riporta alla memoria, e mi riaccende il desiderio di abbandonarmi di nuovo alle sue atmosfere nostalgiche e romantiche, ambientate in una struggente e maestosa Montrèal tutta autunnale (seppur alcuni esterni furono realizzati a New York, e seppur vi è un errore di ambientazione, in quanto naturalmente le Olimpiadidi Montrèal vennero disputate d'estate) dagli splendidi e lancinati colori. Resa da una fotografia che sarebbe impossibile non apprezzare.

Anche se "Running" è stato realizzato all'inizio della carriera di Douglas, continuo ancora oggi a considerarlo uno dei titoli migliori della sua filmografia, il quale è semplicemente eccezionale nel ruolo del protagonista. Forse il mio ricordo di questo film, a quasi dieci anni dalla sua ultima visione quando ne uscì il dvd italiano, non è probabilmente congruente con la realtà, ma ne sono sempre rimasto profondamente colpito. La storia è imperniata su di un maratoneta di grandioso talento ma anche dalla costante paura di fallire, il quale come il buon Pietro si tiene impegnato in massacranti allenamenti nei quali la sua grande determinazione e tenacia fanno la differenza, oltre ad una applicazione che ha del monacale, soprattutto se si pensa che deve gestirsela tra i suoi altri impegni di separato e poi divorziato allontanato dai suoi figli, e dal suo lavoro di sotto occupato. Egli ripone dunque dentro tutto stesso le sue speranze e l'affermazione della propria identità di corridore olimpico, inseguendo il sogno di diventare un campione con i colori del Canada.Purtroppo durante le selezioni arriverà però solamente quarto.La sua autostima è incapace di sopravvivere ad una sconfitta comunque onesta. Ma fortunosamente per lui, dopo un infortunio occorso a uno degli altri corridori prescelti, viene dunque selezionato per la squadra. Durante la gara vera e propria sembra che egli grazie alla sua grande forza e concentrazione riesca a imporre bene il suo talento, ed egli prende agevolmente il comando della maratona fino a che purtroppo non scivola, e cadendo sul selciato bagnato riporta una lussazione al braccio. A questo punto se la mia memoria non vagheggia un poco, alla fine egli ottiene comunque una grande vittoria e un enorme sostegno e incitamento del pubblico, accorso alle sue ali lungo tutto il percorso attraverso la bellissima Montrèal, offrendo a tutti una monumentale dimostrazione di sè, terminando la gara fra lancinati dolori e sofferenze: la sua autostima infatti non potrà essere determinata dalla lega di una medaglia ma dalla propria prova di carattere che è la più alta simbologia di ogni concorrenza atletica, e così deciderà infatti di finire la gara ma questa volta soltanto per se stesso. L'uomo che non poteva sopportare di essere sempre il migliore dei secondi, ora, è l'ultimo, ed è solo, in competizione unicamente contro se stesso. Nella sua sconfitta vince la vittoria della redenzione e se ne va con un premio molto più importante quindi di una medaglia d'oro olimpica. Mi piacerebbe molto rivedere questo film ancora oggi, proprio per Mennea, e non credo che rischierei una delusione rispetto all'effetto che mi fece nuovamente dieci anni fa, il quale fu ancora di grande impatto cinematograficvo.

In un epoca in cui soprattutto i velocisti dell'atletica sono visti e ridotti come oramai legati indissolubilmente al fanatismo del doping, Michael Douglas ci mostra nel 1979 un semi-disoccupato, divorziato trentenne con due bambini, che vede in sè la possibilità di realizzare il suo sogno ... e anche più in alto di questo sogno decidendo di fare della sua vita quello che veramente vuole fare, e nonostante quello che tutti pensano, sperando di entrare nella squadra canadese di maratona alle Olimpiadi! Nelle varie e molto belle sequenze in cui vediamo Douglas disperatamente attaccato alla sua concentrazione durante gli allenamenti, il volto determinato, non sarebbe possibile in questo momento non ripensare proprio alla abatina dedizione e austera serietà dello stesso Mennea. Certo, forse questo personaggio come anche Mennea nella sua introversione e presunta"musonità"che tanto me lo fa assomigliare pure al sottoscritto, non è davvero un personaggio per tutti:anche in questo film il nostro eroe potrebbe essere per qualcuno nient'altro e di più che un disperato il quale sta annaspando nella sua continuata e monotematica ossessione. Forse egli è anche una impaziente "testa calda" - un drop-outfin dal tempo della scuola, arrivando poi alle facoltà di medicina e di diritto (anche qui similmente a Mennea) , che Michael sta frequentando o ha frequentato, trovandosene impantanato anche per la sempre maggiore scarsità di tempo da dedicargli, che preferisce impiegare per i sempre più impegnativi programmi di allenamento -, è anche oramai poco più di un amico per sua ex-moglie (Susan Anspach,bellissima e luminosa come sempre, che alla fine lo festeggerà, e poi, chissà se vi potrà essere un vero riavvicinamento), vi è poi un ruolo-topòi per la sua figlia più giovane (i cui compagni di scuola gli prendono in giro il padre), e alla fine dopo essersi sentito un "fallito" per tutta la vita, se non gli andasse bene la sua "missione", per la sua ostinazione egli rischierebbe persino di divenire una sorta di invasato "nemico del popolo".

Lo sceneggiatore e regista Steven H. Stern dimostrò qui ancora più che in altri suoi lavori di avere assorbito bene e senza luoghi comuni la materia, fornendo un buonissimo studio della formazione di questo personaggio estremamente sottile e così ben resoci da Michael Douglas , il quale pur rimanendo indietro e sputando sangue per terminare la sua maratona, ci trova al traguardo tutti inevitabilmente ad aspettarlo e applaudirlo.

Come spero si sarà potuto capire, ho parecchio amato questo film, fin da quando l'ho visto per la prima volta, ed anche grazie ad esso e alle quasi commoventi imprese di Mennea all'epoca, mi sono avvicinato e formato ad una certa e grande passione per l'atletica, consiglio a chiunque di coloro che non avessero mai ad aver veduto questo bel film di formazione, di ricercarlo e di scoprirlo, ancora oggi non sarà certamente l'interruzione di un'emozione.


Genius Awards, Canada Anno 1980 Nominato ai Genius Awards per la Migliore Fotografia
George Laszlo
Migliore Contributo per il Sonoro
Owen Langevin
Joe Grimaldi
David Appleby
Miglior Film
Bob Cooper
John M. Eckert
Ronald Cohen
Miglior Interpretazione di un attore straniero
Michael Douglas
Miglior Interpretazione di un Attrice straniera
Susan Anspach
Miglior attore non protagonista
Lawrence Dane
Miglior sceneggiatura, originale
Steven Hilliard Stern


Michael Douglas ha detto una volta di questo film: "Le prime due volte che ho letto la sceneggiatura, davvero, sono letteralmente scoppiato in lacrime. Essa ha alcuni grandi momenti - "kvells", (ovvero dallo slang Yiddish utilizzato negli Stati Uniti e in Canada,"fieri di sè stessi, compiaciuti"), come io li chiamo. E' una bella storia, ben costruita, ben scritta, pulita.. e semplice, sana e salutare, amara e al contempo un pò dolce. Una classica, storia d'amore vecchio stile, e anche, penso, con un sapiente e morbido tocco per le emozioni. Mi piace vedere le persone che non hanno paura di mostrare le emozioni, che è l'antitesi del carattere duro e da stronzi che impera ad Hollywood. "

Per prepararsi al suo ruolo, Douglas ha dovuto mettersi in forma. In primo luogo, Douglassi mise a correre venti minuti al giorno per costruirsi una muscolatura e alcune volte arrivò a coprire fino a 50-60 miglia (!). Douglas smise anche di fumare i suoi due pacchetti di sigarette al giorno e perse 12 chili di peso. Avrebbe infatti iniziato a correre alle 6.30 di ogni giorno nei Beverly Hills Canyon.
Douglas ha una volta detto che la corsa era ottima per i postumi di una sbornia.
Durante le riprese a New York, Douglas corse per quindici miglia sopra il ponte della 59 ª strada e ritorno.
Douglas disse che durante le riprese di "Sindrome cinese" era stato in cattiva forma fisica.
Filmati veri della gara di Maratona delle Olimpiadi di Montrèal 1976 -tradizionalmente l'ultimo grande evento agonistico di un'Olimpiade- vennero utilizzati per questo film.
Intorno al momento della sua uscita in sala, Douglas disse una volta di aver iniziato e imparato a correre grazie a questo film: "Il Nirvana non viene ogni mattina, ma è un buon modo per perdere peso, dormo meglio, tranne quando ho un pò avuto a "strafare", e poi ho un sonno agitato, ma non sono stato così in forma dal liceo e ho una migliore disposizione generale -.. chi mi conosce bene può notare che ho più energia, più resistenza e la mia mente è molto più concentrata".
Gli sport che Douglas aveva davvero praticato nel periodo in cui questo film è stato sviluppato, realizzato e distribuito erano il nuoto e un pò di tennis, ma Douglas non era in realtà un praticante di jogging in quanto tale.

Questo film è stato fatto e distribuito circa tre anni dopo le Olimpiadi di Montrèal del1976.
Il risultato della Maratona delle Olimpiadi di Montrèal del 1976 in questo film canadese ci mostra che il Canada vince comunque la medaglia d'oro, la bandiera canadese viene infatti issata in posizione centrale nel corso della cerimonia di premiazione. Tuttavia, è ben noto che il Canada non ha vinto la sua prima medaglia d'oro in una Olimpiade casalinga fino ai Giochi delle Olimpiadi invernali di Vancouver, nel 2010. Il vero vincitore della Maratona delle Olimpiadi di Montrèal del 1976 fu Waldemar Cierpinski della Germania Est.

Strutture e luoghi reali delle Olimpiadi di Montrèal del 1976 si caratterizzano come luoghi reali in questo film incluso il Villaggio Olimpico e lo stadio principale.
Film d'esordio di Lesleh Donaldson .

Cameo
Eugene Levy : come l'amico di Michael Douglas, Ritchie Rosenberg. Questi fu poi il protagonista del terzo film della serie di "American Pie". Un ruolo precoce per Levy, in cui lo si vede come afroamericano.

Napoleone Wilson