martedì 31 gennaio 2012

Black Mama, White Mama - Donne in Catene

6

Tranquillizzatevi tutti, non si tratta di un parente stretto o di un usurpatore del Maestro. Il vecchio Eddie Romero (classe 1929) è uno dei più famosi cineasti filippini, autore di pellicole con forte sottotesto politico che, inevitabilmente, flirtò con la American International Pictures di Arkoff e Nicholson, regalando così agli appassionati dell'exploitation settantesca opere pregiate come "The Twiligth People" (1971) e pure questo "Black Mama, White Mama" (1973), scritto su soggetto di Jonathan Demme.

"Chicks in Chains, where they come from this is...Fun!", strilla la tagline di questo ottimo Women In Prison, che dopotutto, Women In Prison lo è solo per i primi venti minuti, con l'arrivo delle carcerate Lee Daniels e Karen Brent, una nera l'altra bianca, ma che ve lo dico a fare, nella prigione gestita con guanto di pelle nera dalla suberba, biondocrinita Lynn Borden (si, si, proprio lei, già vista in "Zozza Mary, Pazzo Gary" e "Frogs", e , se non vi basta, pure di una marea di serial Tv, "Hazel", "Get Smart", "Ironside", tra le altre cose) che subito (o quasi) si esibisce in una magnifica scena di autoerotismo mentre spia le detenute che si fanno la doccia. Naturalmente, le due protagoniste riescono a trovare un motivo per litigare e farsi così punire finendo direttamente, nude of course, dentro il "forno", cioè una cabina/latrina piazzata in un campo sotto il sole cocente, per poi venire trasferite in un'altra prigione di massima sicurezza. Durante il tragitto in autobus, un gruppo di terroristi, il cui capo è amante di Karen, attacca il mezzo ma, come da copione, va tutto a puttane. Si compie una carneficina mentre le due donne approfittano della situazione per fuggire, rimanendo però incatenate l'una all'altra. Ci siamo dimenticati di dire che Lee, l'amazzone nera, è la donna di un super-pappone malavitoso al quale ha fregato 40.000 dollari e quindi vuole tagliare la corda via battello al più presto, mentre Karen è decisa a riunirsi al gruppo di anarchici. Ci siamo anche dimenticati di aggiungere che le due supergirls sono nientemeno che Pam Grier e Margaret Markov, bellissime, arrapantissime, magnifiche sia in giacchetta giallo canarino che con vestale sacra, capaci ancora oggi di far tremare i polsi dello spettatore.

Si, perchè la scorza dura di Pam Grier (mi dispiace, ma non ha assolutamente bisogno di presentazioni da queste parti, la stupenda"Sheba Baby","Coffy", "Foxy Brown", "Jackie Brown" e pure battona nel capolavoro "Fort Apache, The Bronx" [1981] diDaniel Petrie con Paul Newman, per tacere degli altri WIP and Blaxploitation, vedi "The Big Doll House" [1971] di Jack Hill) si sposa in maniera pressochè perfetta con la dolcezza e il sorriso obnubilante della Markov, capelli biondi lunghissimi, gambe da infarto, pura bellezza seventies, anche lei presente in diversi prodotti espolitativi come "Run, Angel, Run/Corri, Angelo, Corri" (1969) diJack Starret, "The Hot Box" (1972) di Joe Viola, sempre su script di Demme e, soprattutto, "La Rivolta delle Gladiatrici"The Arena" (1974) diretto da Aristide Massaccesi (ma accreditato anche a Steve Carver, regista cormaniano di fiducia) in cui si ricostituisce l'accoppiata Markov/Grier, con contorno di volti bis come Mimmo Palmara, Franco Garofalo e Daniele Vargas.

Detto ciò, è bene continuare avvertendo il pubblico che la pellicola da WIP si trasforma in film avventuroso con fuga delle protagoniste per poi virare sui maneggi criminal-politici tra il governo, i terroristi, il pappone e un weirdissimo cowboy interpretato dal mio idolo Sid Haig, iconograficamente lontanissimo da Captain Spaulding, ma con la sua inconfondibile, straordinaria voce e sigaro e cappellone (nel senso di copricapo) in bella vista, capace di rubare la scena a tutti quanti, sia vestito di tutto punto (celeberrima la scena in cui costringe il primo ministro e il capitano della polizia a mostrare chi ce l'ha più lungo) che in mutande (l'orgia con due giovini fanciulle, il cui padre ascolta preoccupato dietro la porta). Pura exploitation settantesca con fughe, Wolkswagen Country Buggies, cazzotti, tentati stupri, coltellate e fintissimo sangue rosso vernice che trova quadratura pure in un finale concitato con esplosioni e sparatorie, venato però da un'amarezza ed una malinconia che difficilmente si trova nei prodotti di questa filiera; la battaglia finale, con il corpo di Karen, finalmente riunitasi con il gruppo di rivoltosi, crivellato dai colpi e poi abbandonato insieme agli altri cadaveri sul molo, mentre Lee si allontana su una barca, è notevole e degno di essere ricordato. E Romero (Eddie) non perde occasione di esprimere la sua disincantata visione politica mettendo in bocca al capitano, che per tutto il film ha inseguito senza successo le due ragazze, di fronte al corpo insanguinato di Karen, una battuta in cui ammette che, entro l'ora di cena, sarà promosso dopo dodici anni di servile servizio. Bellissima colonna sonora del jazzista Harry Betts(utilizzata dal solito Tarantino in Kill Bill Vol.1, mi pare), che suonò con Ella Fitzgerald in "Get Happy", valore aggiunto ad una pellicola che merita una visione. Se non altro per Pam e Margaret. C'è chi lo considera la versione femminile, con tutte le attenuanti del caso, di "The Defiant Ones" (1958) cult di Stanley Kramer con Sidney Poitier e Tony Curtis nei panni dei due carcerati. DvdMGM del 2003, PAL , Anamorphic, 1.85:1, ma con extra veramente risicati, solo il trailer. E vabbè, accontentiamoci.

Consigliatissimo. Buona visione.
Belushi

lunedì 30 gennaio 2012

Inganni

6

Il Grande Cinema d'Autore Italiano è proseguito nei sempre più bistrattati anni '80. "Inganni" ne è una prova e invito sin d'ora a vederlo, perlomeno chi ha voglia di affrontare un film che tratta a un tempo temi come la malattia mentale e la poesia narrando, con studio e competenza, la vita di Dino Campana.

Dino Campana è nella storia della nostra cultura grazie alla raccolta di componimenti, in prosa e in poesia, "Canti Orfici". E' stato un rivoluzionario del modo di scrivere ed è notissimo a tutto il mondo letterario ed intellettuale ancora oggi. Io che non appartengo a quel mondo non mi sento di parlarne da questo punto di vista, per cui consiglio di leggere la pagina wiki a lui dedicata.

Consiglio anche la pagina dedicata al film nel sito ufficiale di Marina Piperno e Luigi Faccini. Proprio da quella pagina vi riporto la trama, descritta dallo stesso Luigi:
Il film inizia con la crisi del suo amore tempestoso per la scrittrice Sibilla Aleramo. Siamo nel 1916. Due anni più tardi, povero, amareggiato, rifiutato dalla famiglia e dalla società letteraria del tempo, accetta il ricovero nel manicomio toscano di Castel Pulci. Durante la degenza - siamo già nel 1928 -, un giovane psichiatra, Carlo Pariani, attratto dalla poesia dei Canti orfici nel frattempo ripubblicati, cerca di decifrare il mistero della sua creatività. Vorrebbe indurlo a rientrare nella vita e nella società letteraria che, tardivamente, lo ha riconosciuto “grande”. Il rapporto tra lo psichiatra e Campana è ambiguo, rischioso per entrambi. Lo psichiatra “studia” e inquisisce il poeta. Dino Campana si trincera, finge, nega, mendica comprensione. Dai deliri nei quali si rifugia per difendersi dalle intrusioni dello psichiatra emerge Sibilla, severa, invitante. Ma anche la madre, con la quale ha sempre avuto un rapporto improntato all’aggressività. Lo psichiatra non convincerà Campana ad uscire dal manicomio, ma risveglierà in lui frammenti di coscienza e di lucidità, intuendo, ma senza afferrare il segreto della “grande musica” inseguita dal poeta...

Interpretato magnificamente e con evidente trasporto da Bruno Zanin, anch'io come Carlo Pariani a lungo ho pensato che la malattia mentale di Campana non fosse reale, bensì una sorta di espediente per sottrarsi a un mondo che non gli piaceva e dal quale si sentiva persino perseguitato. Il manicomio a suo modo era un luogo protetto, il solo guscio dove poter esprimere liberamente pensieri ed azioni non conformi. Emblematiche sue battute su potere e fascismo durante la lettura del giornale che spesso gli portava Pariani. Certo, c'erano gli incubi, sogni ad occhi aperti, momenti in cui la mente si dissociava completamente dalla realtà, ma chi ne è del tutto esente? Se poi parliamo di un artista, categoria dalla quale un po' di pazzia te l'aspetti e alla quale giustifichiamo bizzarrie d'ogni sorta... Ad ogni modo, persino Pariani dovette diagnosticare, quasi suo malgrado, l'Ebefrenia per il povero Campana.

Il film vanta nomi illustri tra i suoi "lavoratori", che hanno inciso nell'altissima qualità complessiva.
Girato in 35mm, la fotografia è curata da Marcello Gatti (basti citare "La battaglia di Algeri", "Le quattro giornate di Napoli", "Anonimo Veneziano" dal suo curriculum) a colori tenui. C'è uno sfondo sostanziale di grigio che rende nel sottolineare le ambientazioni, così come le abbacinanti - a luce ampia o nel buio con fasci che tagliano le scene - apparizioni dei genitori a volte, dell'amata Sibilla Aleramo (Olga Karlatos, per chi scrive attrice bravissima e molto bella) in altre, nelle visioni di Campana. Il tutto però avviene senza alcun eccesso stilistico, sono sfumature che vanno percepite. Ho persino notato un aumento del colore nei momenti di euforia o collera del Campana, magari ottenuto semplicemente con particolari d'abbigliamento come una cravatta rossa, ma forse è solo una mia suggestione.

Nessun eccesso, ancora dettagli che chi vuole imparare a usare la macchina da presa dovrebbe cogliere, nelle inquadrature. Qua mi riferisco soprattutto al regista. Non saprei definirne la tecnica, ma il passaggio reale-onirico avviene sempre senza far provare allo spettatore uno stacco troppo netto. Realizza, Faccini, un continuum visivo che porta così a vivere la mente del Campana, proprio come per uno schizofrenico per il quale non è percettibile la sua doppia natura come tale. E' un aspetto di questa malattia che sottolineai già in occasione del bellissimo "Diario di una schizofrenica" (1968, Nelo Risi). Faccini gira questo film a ridosso dell'avvento della "Legge Basaglia" e anche se l'istituzione del manicomio in sé non è l'argomento principale non risparmia qualche piccola "stoccata". In fondo il ricovero di Campana nasce come coatto anche se poi il poeta non dà segnali, dopo 10 anni, di voler più uscire da lì. Diverse scene, anche in esterni, sono presentate come riprese da un occhio ospite, che guarda da dietro una delle grate a chiusura delle finestre. C'è ancora il senso di prigionia unito a quello d'intricata situazione nel riprendere i rami d'autunno spogliati, nel giardino recintato. Di forza drammatica e suggestiva le soggettive di Campana, sia adulto che bambino in momenti diversi, che guarda con fare accusatorio i genitori, in particolare una madre da lui terrorizzata.

Come dicevo, dietro a questo film c'è passione e competenza. Se la passione è una dote, la competenza richiede lavoro e studio. Sotto potete leggere le parole dello stesso Luigi Faccini, che ho deciso di riportare qua, non potrei mai spiegare meglio di lui quello che ha fatto. Io vi saluto dicendovi che per me questo regista è una meravigliosa scoperta. Quest'anno avevo detto che volevo approfondire il Cinema Italiano e per intanto farò una rassegna completa dei suoi film, senza interruzioni con altro. Li considero una scuola, e ho voglia di studiare.

Valutazione del film? Olimpo per me.
Ho sognato Campana, con le fattezze di Zanin ovviamente, per 2 notti a fila. Se si hanno determinate sensibilità è una storia, grazie soprattutto a come viene raccontata, che ha una lunga persistenza nel ricordo dello spettatore. Emoziona senza alcuna retorica e per questo il suo realismo colpisce e scuote.

Riconoscimenti:
In concorso al Festival di Locarno (1985)
Menzione Speciale della Giuria
Menzione Speciale della Giuria di Cinema e Gioventù

In concorso al Festival del Cinema Neorealistico di Avellino (1985)
Laceni d'oro a Bruno Zanin, Mattia Sbragia, Luigi Faccini e Marina Piperno

Nastro d'Argento per la fotografia a Marcello Gatti (1986)
Nastro d'Argento Speciale a Luigi Faccini (1986)

Robydick

ecco le parole di Faccini dalla pagina del sito dedicata al film:


È il 1972 quando apprendo dell’esistenza di Dino Campana. Della sua poesia, naturalmente. Sono ad Arezzo, immerso nell’esperienza basagliana che in quegli anni, preparandosi alla chiusura dei manicomi, tentava di aprirli alla società esterna: da luoghi di reclusione a luoghi di visita e frequenza, da luoghi morti a luoghi vivi. Ero lì, un po’ casualmente, come regista che avrebbe dovuto prelevare frammenti di quel tentativo per un ciclo di trasmissioni televisive dedicate alla “riforma sanitaria”. Mi ci appassionai, a tal punto che ad Arezzo dedicai un’intera puntata del programma. E ci tornai, per due anni di seguito, in una funzione del tutto inventata, quale animatore di quel vuoto, di quella stasi, di quel silenzio rotto da grida improvvise che era il manicomio, che è ancora dove non sono totalmente chiusi. Agostino Pirella, braccio destro di Basaglia e direttore di quell’Ospedale, mi consentì di vivere in mezzo ai degenti; guai chiamarli matti: matta era la società che li discriminava, in quanto strani, diversi, disturbati, poco produttivi. E molto era vero: quanti contadini erano stati confinati in manicomio da famiglie spazientite, che altro avevano da pensare? L’Ospedale Psichiatrico di Arezzo riuscì, infatti, a dimettere, e ricollocare in case-famiglia, nel corpo della città o nei suoi dintorni, decine e decine di persone. Li filmavo con una telecamerina Akai 1/4 di pollice, consentendo a gente reclusa da trent’anni di afferrare un microfono e dire (il più delle volte tacendo, tragicamente) qualche parola sensata o suono mozzo. Trascrivevo le registrazioni e partecipavo al rito di “apertura” del manicomio, quando vi affluivano parenti e amici che si incontravano con infermieri, medici e degenti, ripristinando percorsi di vita, cominciando, quindi, a distruggerlo, come luogo di segregazione definitiva. Drammatiche erano, spesso, le riflessioni post-assembleari, quando le contraddizioni emerse venivano analizzate in ogni loro implicazione e dinamica. Fu per me un’esperienza squassante, formativa come nessun’altra. Avevo poco più di trent’anni. L’età in cui Dino Campana, ridotto allo stremo delle sue capacità di resistenza nel mondo che lo circonda, un po’ getta la spugna, un po’ viene espulso da madre, padre e comunità di Marradi. Ma tutto questo non lo sapevo ancora. Perché Dino Campana, fino a quei giorni, per me non era che un nome nell’antologia poetica del Novecento... Una mattina, prima di immergermi nell’impegno quotidiano di “ascoltatore”, pesco in una libreria di Arezzo una copia dei Canti orfici, in edizione Oscar. Sfoglio. Leggo suoni. Ascolto colori. “Andavamo andavamo, le vele molli di caldi soffi...”, leggo. Io sono ligure, di Lerici, discendente di marinai, spesso morti per acqua furibonda. Ho una madre genovese, nata da migranti lericini. È un mancamento istantaneo che mi prende. E poi: «Usted quiere mate?». Qualcuno, nella pampa, si rivolge a Dino Campana e gli offre la bevanda nazionale argentina. Sono con lui, immediatamente, di notte, sotto un cielo chissà se stellato o nero come pece. «E per i vicoli che in alto sale... che bianca e tremula salì...». Ed eccomi a Genova. A casa di mia madre. Sui moli dove mio padre attraccò nella sua brevissima giovinezza, senza sapere quanto breve sarebbe stata. Il viale che porta al fabbricato tozzo, ma signorile, della direzione dell’Ospedale Psichiatrico di Arezzo, è fiancheggiato dai tigli. La brezza spiuma i fiori dal profumo caramelloso. Io leggo e viaggio con Dino. Mi ha portato con sé sulla Verna, dove voleva salire “come il falco”. Un degente, contadinello insieme stolto e furbesco, sta a cavalcioni di una panchina in pietra. Piega il collo per curiosare. Mi avvicino. Gli mostro la copertina del libro. «Sono poesie...», dico. «Vuoi sentire qualcosa?». Annuisce. «O siciliana proterva opulenta matrona...». E trascino ‘il matto’ nei vichi marini, nella notte mediterranea, nella devastazione, occhiuta. Tremo, leggendo. Batto il piede, cercando la cadenza erotica di quei versi. Smetto e guardo quella faccia pallida, dagli occhi spalancati, che sorride, come se mi prendesse in giro. «Ma questa non è poesia, è musica!», dice. Devo a quel ‘matto’ e a Dino Campana, abbandonati da chi non era stato capace di amarli, la fulminazione che mi ha portato a covare Inganni, ispirato al mio Campana e a tutti i matti che vado ancora cercando nella vita. Durò dodici anni l’attesa e la sceneggiatura fu scritta e riscritta un’infinità di volte. Moravia disse trattarsi di «un film campaniano». Mai complimento fu più gradito...

sabato 28 gennaio 2012

Seven (aka: Se7en)

36

David Fincher
dopo l’esordio con Alien3 meglio noto come Alien al cubo, dirige il suo film più inquietante, siamo dalle parti del Thriller, e fa subito centro, Seven che si allontana drasticamente dallo straordinario Il silenzio degli innocenti di Demme, prende per spunto un serial killer che uccide le sue vittime in base al vizio capitale che commette.

Protagonisti sono Brad Pitt, qui nella sua prima prova importante e Morgan Freeman, che grazie a questo film, diventa un icona per gli amanti del genere, e in seguito interpreterà altri poliziotti a caccia di Serial Killer, siamo dalle parti del film d’alta qualità, l’ambientazione piovosa ne accentua di più la drammaticità e l’inquietudine, come se i protagonisti si muovono in territori sconosciuti, che rasentano il pericolo, è un mondo perverso, che è strettamente legato con la trama, e soprattutto con la psicologia dell’assassino interpretato da uno straordinario Kevin Spacey, che a proposito quell’anno vincerà anche l’oscar per un altro ruolo Kaiser Soze nel capolavoro di Bryan Singer I soliti sospetti.

Le indagini sono da subito complesse, e cadavere dopo cadavere, i nostri detective devono ricostruire attraverso la struttura il profilo dell’assassino, che non è facile, perché non ha un solo modus operandi, lui opera attraverso il peccato che commettono le persone che uccide, come se fosse un predicatore, che vuole eliminare i vizi capitali, hanno di fronte un estremista  che vuole ripulire il mondo da tutto questo marcio, e l’unico modo che conosce è eliminare coloro che commettono questi peccati, è logico che la sua mente è completamente delirante, Mills (Brad Pitt) e Somerset (Freeman), non hanno molto tempo per sbrogliare l’intricata matassa, che li vede testimoni di un brutale sterminio, in cui dovranno fare i conti anche attraverso la loro vita privata, c’è Mills, che vive con la sua giovane moglie, una ragazza che si sente come un estranea, in cerca di una guida, e c’è Somerset, il solitario, che ha dedicato la sua vita al lavoro, dimenticando da tempo il lato solare della vita, cercando sempre di trovare un qualcosa che cambi la sua vita in meglio, non si è mai incattivito, questo no, ma ha smesso di credere e forse anche di lottare, cercando sempre con criterio e razionalità di risolvere i casi, Mills, al contrario suo, è più istintivo, e vuole risolvere questo caso che gli si è presentato, nel migliore dei modi, è impulsivo, e agisce più col cuore che con il cervello data la giovane età.

Le cose si complicano quando la giovane moglie di Mills rimane incinta e parla con Somerset, lui le dice di scegliere la soluzione migliore, le racconta che una volta stava per diventare padre, e ha detto alla sua compagna, di interrompere la gravidanza, non aveva il coraggio di crescere suo figlio con tutto quello che vedeva in giro, ma dentro di se, è rimasto il rimpianto di non essere riuscito a diventare padre, le consiglia quindi di scegliere la decisione migliore, per se e per il bambino che porta in grembo, attenzione perché questo fatto sarà importantissimo nel finale.
Come risolveranno il caso? Dopo un ennesimo omicidio sarà proprio John Doe (Spacey) il killer, a presentarsi dai detective, disarmato, e pieno di sangue, mentre loro sono in un luogo pubblico, si fa semplicemente arrestare richiedendo esplicitamente i detective Mills e Somerset, che hanno seguito il suo caso per raccontare loro tutto quanto, sia gli omicidi, sia le vittime, tutto quanto, verso il cammino che lo porterà in una prigione, lui continua a  parlare con Mills soprattutto che non smette mai di parlare e domandare, lo provoca pure, chiedendogli anche domande provocanti.
Ma il culmine è la scena finale, in cui sarà una lotta tra Mills e Doe, in un crescendo di tensione che tocca i massimi livelli storici lottando, tra l’ira, del detective, e la sua rabbia, e le parole di Doe riguardo alla sua ultima vittima che non vi dico altrimenti sarebbe spoilerare, attenzione al pacco che arriva da un furgoncino, beh non dico altro.

Un film straordinario, che forma insieme al capolavoro di Demme un altro tassello al thriller, senza dubbio è uno dei film più importanti degli anni novanta, tratto da una brillante sceneggiatura di Andrew Kevin Walker, ah fate attenzione ai titoli di testa e di coda mi raccomando, che descrive con precisione da manuale la mente deviata e malata di John Doe, che è rinchiusa dentro a dei quaderni che vengono ritrovati nel suo appartamento, la regia di Fincher dimostra di saper impastare il racconto e saper dirigere gli attori, e non è comune per un giovane regista ancora alle prime armi, Brad Pitt, diventerà in futuro l’attore feticcio di Fincher, menzione speciale va senza dubbio a due attori, a Morgan Freeman, che si dimostra un grande attore a cominciare da questo film, e Kevin Spacey, che diventerà l’attore più importante degli anni novanta, che con questo film diventa un icona.
Un film che può considerarsi un capolavoro del genere, dalla sceneggiatura originale, e dalla regia particolarmente attenta e brillante, e questo non è poco considerando che allora Fincher aveva nel suo curriculum spot, videoclip musicali, e la terza parte di Alien.
Arwen Lynch

venerdì 27 gennaio 2012

Not Of This Earth

8

Cosa c'è di meglio di un film nato per scommessa? Cioè Jim Wynorski scommette con Roger Corman che riuscirà a girare un film in dodici giorni, come fece ai tempi il maestro con il prototipo del 1957 con Beverly Garland ("Il Vampiro del Pianeta Rosso/Not of This Earth"). Morale della favola, Wynorski il film se lo gira in undici giorni e mezzo con un budget di 210.000 dollari. In più ci mette a starreggiare la divina ex-reginetta del porno Traci Lords, proprio lei, quella che per poco non fece implodere l'universo dell'Hard statunitense, perchè minorenne ai tempi del grande successo hardistico.

Wynorski è il mio preferito tra i registi "marginali" degli ultimi 20/30 anni. Uno che non si è mai nascosto dietro il paravento dell'autorialità a tutti i costi, un gran cazzaro con una passione spropositata per Russ Meyer e per Sam Peckinpah, uno che ha cominciato con e per Corman curando l'edizione americana de "L'Isola degli Uomini Pesce" (1979) di Sergio Martino, ribattezzato "Screamers" per l'occasione, con intro farlocco e trailer girato dallo stesso Wynorski , per poi passare direttamente alla realizzazione di lungometraggi in cui mostrare tette, sangue, combattimenti, omicidi e quant'altro richiesto dalla serie B di pura marca cormaniana. Insomma, uno che di cazzate se ne intende. Non fa eccezione questo"magnifico" parto interstellare con alieno/vampiro succhia sangue (il mitico, immarcescibilie Arthur Roberts, carriera sterminata tra "Agenzia Rockford", "Starsky&Hutch" financo "General Hospital" e i film di Wynorski, ancora attivo) che deve fare scorta di emoglobina per salvare il pianeta natale in estinzione(?); troverà sul suo cammino la arrapantissima infermierina Nadine Story, alias Nora Louise Kuzman alias Traci Elizabeth Lords alias Traci Lords, di bellezza incommensurabile, che ha ancora negli occhi quello sguardo duro, gelido, quasi incazzoso, che si vedeva pure nei porno, dove sembrava tutto fuorchè la pecorella smarrita e ingenua.

Girato tra due stanze e qualche location rubacchiata, con effetti speciali very cheap, voci fuori campo e quella sana cialtroneria che un film del genere automaticamente si porta dietro, "Not of This Earth" è puro junk-food cinematografico che gli appassionati e gli addetti ai lavori sapranno come prendere e, in qualche caso, anche amare, come il sottoscritto, che apprezza molto il lavoro di Wynorski, autore pure di "The Lost Empire" (1986) con Angela Aames, del mitico "Supermarket Horror/Chopping Mall" (1986) con Barbara Crampton e cameo di Dick Miller, e di altri, spericolati e assolutamente non richiesti seguiti che rispondono ai titolo di "Deathstalker 2", "Sorority House Massacre 2", financo un incredibile "Big Bad Mama 2" e quel "976 Evil 2", sequel del film di Robert Englund, che contiene una grande scena in cui "La Vita è Meravigliosa" di Capra si trasforma in "La Notte dei Morti Viventi" di Romero, unico, piacevole guizzo in una rottura di c...... senza pari, che riassume in pochi minuti l'essenza esploitativa di un regista che lavora solo per i soldi, legato ad una rappresentazione cartoonesca dell'horror e della violenza che colpisce (solo chi scrive, chiaro) più e meglio dei suoi colleghi Fred Olen Ray o Dave DeCoteau. Però, gran cazzaro e cialtrone rimane, tanto che il film, sopratutto all'inizio, è pieno di sequenze rubate dalla library della New World, da "Piranha" di Joe Dante fino ai cultuali "Il pianeta del Terrore/Galaxy of Terror" e "Monster-Humanoids From the Deep" e il celeberrimo "Hollywood Boulevard" (1976) di Dante e Allan Arkush.

Per il resto, bè, c'è Traci Lords, magnifica in divisa da infermiera, nell'ultimo ruolo in cui compare nuda o seminuda. Ancora bellissima, anzi di più, nel "Zach and Miri Make a Porno" (2008) di Kevin Smith. Per chi volesse approfondire, consiglio l'ottimo documentario "X-Rated Ambition: The Traci Lords Story" (2003) di Simon Kerslake. Nel ruolo della battona bionda a capo del trio che Roberts si porta a casa, c'è la Roxanne Kernohan di "Critters 2" mentre Rebecca Perle è doppiata nientedimeno che da Angel Tompkins, l'angelo biondo di "The Teacher" e "Little Cigars/La Gang dei Bassotti". Nel novembre del 2010 la Shout!Factory ha finalmente rilasciato un'ottima edizione in Dvd, Region 1, NTSC, New Anamorphic Widescreen Transfer 1.85:1, con commento audio del regista e pure la versione editata per il passaggio televisivo, collana Roger Corman's Cult Classic. Consigliatissimo, pure l'originale cormaniano, che dura poco più di un'ora. Vabbè, in dodici giorni che cazzo volevate?

Buona visione.
Belushi

giovedì 26 gennaio 2012

Jodaeiye Nader az Simin - Una Separazione

17

Robydick:
Oggi saluto l'avvento tra i nostri collaboratori dell'amico Marco Marchetti. Un grande acquisto, conosciuto già di persona. Ne sono molto contento. Scrive già su altri giornali/siti però di genere. Qua da noi "generalisti" avrà invece la massima libertà possibile. Gli lascio la parola.

Marco:
Una separazione, di Ashgar Farhadi, è una di quelle pellicole che, nonostante l'Orso d'oro berlinese, ti procurano parecchi grattacapi, e che quindi, da un punto di vista prettamente utilitaristico, sarebbe meglio non vedere o vedere di nascosto. Ti infili al cinema tutto intabarrato, occhiali da sole calati sul naso a dispetto del cattivo tempo, il giornale spalancato davanti alla faccia, e te ne stai lì impagliato come un fagiano fino a quando non si spengono le luci. Allora tiri un sospiro di sollievo, perché se nessuno ha fatto il tuo nome vuol dire che nessuno ti ha riconosciuto, e se anche qualcuno l'avesse fatto, poco importa: ciò significherebbe che c'è almeno un'altra persona vittima delle tue stesse inconfessabili pulsioni.

Una separazione è un film segreto, anzi, segretissimo, quasi di cui vergognarsi. Una pellicola clandestina, uscita in sordina a ottobre nei cinema più periferici, quelli d'essai (scusate il francesismo, è che gli insulti in francese paiono sempre più delicati), insomma in quei buchi dove si rifugiano soltanto i nerd e i misantropi con grossi problemi relazionali. Come il sottoscritto. Ma ti immagini uscire con una ragazza e confessarle che la stai portando a vedere un film iraniano? O peggio ancora, non dirle niente e fare come Travis Bickle (per me maestro di vita come Sai Baba per gli indù): scarrozzarla direttamente in sala assicurandole che quello è un film per famiglie come ce ne sono tanti?

Eppure Una separazione parla di famiglia, anzi di due famiglie, e pur non essendo un film per tutti tratta di situazioni quotidiane in cui tutti si possono trovare. C'è la famiglia di Nader e Simin, due coniugi della media borghesia che si stanno per separare, e che oltre ad accudire la figlia undicenne devono pensare al padre di lui, profondamente malato di Alzheimer. Poi c'è la famiglia di Razieh e Houjat, pure loro con una figlia, però molto più piccola, e anche per loro le cose non vanno bene: il marito beve, è irascibile, ha perso il lavoro ed è disoccupato da mesi. In più Razieh è incinta, e dal momento che le servono soldi va a fare la badante per il padre di Nader. Sì, perché da quando Simin se n'è andata di casa, Nader è fuori tutto il giorno e non c'è nessuno che si occupi dell'anziano. Il problema è che la donna è totalmente impreparata a svolgere quel tipo di attività, così abbandona il posto di lavoro per un impegno e lascia il vecchio legato al letto. Il quale, come da copione, casca a terra e, cadendogli la maschera d'ossigeno che gli impedisce di soffocare nel sonno, rischia di morire per asfissia. Nader interviene per tempo e, rendendosi conto dell'accaduto, attende che Razieh torni a casa. Tra i due scoppia un litigio furibondo, lui l'accusa di aver rubato del denaro e di aver attentato alla vita del padre, lei non vuole uscire di casa, si oppone alle accuse, la rabbia diventa incazzatura e alla fine lui la spinge fuori dall'abitazione fino a quando la donna non scivola per le scale e perde il bambino. Morale della storia, Nader è accusato di omicidio e rischia da uno a tre anni di carcere (il feto era al quarto mese e al quarto mese, per le leggi iraniane, procurare un aborto, anche colposo, è comunque considerato omicidio). Le due famiglie finiscono in tribunale, una accusata di violenza personale e omicidio, l'altra di furto, abbandono del posto di lavoro e maltrattamento di anziani. Entrambe rischiano grosso, entrambe hanno paura di perdere tutto. Entrambe sono disposte a lottare con unghie e denti pur di uscirne incolumi.

Il film di Asghar Farhadi, regista e sceneggiatore, è innanzitutto una riflessione sulla parola, sul Logos, per dirla coi greci, sul modo in cui ogni singola affermazione, se (de)contestualizzata, levigata o finanche leggermente (o involontariamente) alterata può provocare un imprevedibile effetto domino, in cui il primo tassello, sbattendo sul secondo e colpendo il terzo, finisce per rendere dubbia anche l'accusa più solida. Già, perché Una separazione non è soltanto un capolavoro di scrittura, che nelle sue due ore racchiude, sintetizza e per certi versi, seppure in modo dissimile, assorbe e annienta il soggetto polanskiano (quello del coevo Carnage, s'intende) ad opera di Yasmine Reza, francese ma, ironia della sorte, di padre iraniano; è piuttosto una sinfonia registica, che partendo da uno spaccato sociale di vita quotidiana dimentica presto qualsiasi pretesa di denuncia terzomondista per esplodere in uno psicodramma a tinte fosche. Sembra quasi di assistere a un grande noir, costruito attorno a un fatto di violenza domestica più che di cronaca nera, e dove ogni indizio, proprio come nella più raffinata tradizione di genere, racchiude in sé interpretazioni contrastanti e contraddittorie. Con l'unica e non trascurabile differenza che se nella struttura classica del giallo l'indagine giudiziaria tenta di appurare una verità in qualche modo apodittica, ove i colpevoli siano distinti con la maggior chiarezza possibile dagli innocenti, qui invece essa non sembra esistere, in quanto frutto di chi quella stessa verità la vede e la pondera, pirandellianamente, in modi diversi. Nader non sa (o dice di non sapere) che Razieh fosse incinta. Se l'avesse saputo non avrebbe alzato le mani, d'altronde, ma la figlia comincia a sospettare delle esitazioni del genitore, delle sue reticenze, mentre i testimoni, ritrattando e fornendo versioni discordi a seconda della situazione, vuoi per ragioni di amicizia o di buon vicinato, complicano il puzzle anziché semplificarne le circostanze. Le prospettive si fanno sempre più ambigue, le certezze si tingono di una sfumatura equivoca, tanto per i personaggi, che a dispetto della rispettiva convenienza e connivenza, non sono più sicuri di quanto accaduto, sia per lo spettatore, che se in principio parteggia per il ragionevole borghese Nader, in un secondo momento intuisce che forse l'arrogante Houjat, a dispetto dei modi irascibili e violenti, tutti i torti non ce li ha. Forse, appunto.

Alla fine di questo drammatico kammerspiel senza né vincitori né vinti (proprio come nell'onnipresente e imprescindibile Carnage), l'unica chiave di lettura valida si rivela essere la gravosa presenza del padre malato che, ammutolitosi dopo l'incidente, relegato a personaggio marginale eppure moralmente allegorico, ci ricorda costantemente del male che tutti noi, con inesorabile irreparabilità, siamo costretti per civiltà e natura a portarci dentro.
Marco Marchetti

Robydick:
Questo film, uscito recentemente anche se prodotto nel 2009, è ancora reperibile nelle sale. Come Marco, lo consiglio vivamente. Elenco anche i premi che ha ricevuto al Festival di Berlino 2011:
  • Orso d'Oro: Miglior Film
  • Orso d’Argento: Migliore Interpretazione Femminile
  • Orso d’Argento: Migliore Interpretazione Maschile, Ecumenical Jury Prize, Peace Award College
Mi pare sia candidato anche agli oscar come Miglior film straniero.

mercoledì 25 gennaio 2012

Goodbye & Amen (aka: L'Uomo della CIA)

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“Goodbye & Amen – L'Uomo della CIA”
è per alcuni addirittura il migliore film che Damiano Damiani abbia mai realizzato, certamente, e ve lo posso confermare grazie al dvd pubblicato da quei ragazzacci della CineKult/Nocturno a dicembre, che rivedendolo non ho potuto che confermare nei confronti di questa pellicola d'assedio e di spionaggio, tutte le impressioni favorevoli che mi aveva sempre suscitato, fino alla mia ultima visione di circa 18 anni fa, nella vecchia videocassetta pubblicata dalla Domovideo.

Appena questa nuova edizione in digitale è finalmente uscita, come si suol dire oggi da voi giovani appassionati, ho inviato la mia fedele segretaria alla Ricordi in Via del Corso a prendermi questo dvd. Purtroppo, l'edizione è derivata dalla medesima precedente edizione in vhs, non è certamente la videocassetta riversata, ma la qualità è ugualmente molto bassa. I colori sono spenti e quasi completamente svaniti, l'immagine è nebulosa e granulosa, senza dettagli oltre che contrasto, ma come ho poi letto dal simpatico Pulici sulla rivista di quei giovani divertenti ragazzacci, tra un'immagine di attrici nude e l'altra che il mio capo di gabinetto sempre mi fa sparire, era l'unica edizione possibile del film, l'unica in dvd del mondo quindi si è deciso comunque per la pubblicazione, dato anche l'alto valore intrinseco dell'opera, essendo il master originale andato perso molti anni fa in un allagamento.

Tornando al film, è veramente uno dei film italiani con impianto da thriller politico e di denuncia all'”americana”, sulle magagne della CIA di quegli anni, del tipo de “I Tre giorni del Condor” (Tree Days of the Condor) ('75) di Sidney Pollack, tanto per intenderci, tra i migliori se non il migliore, mai realizzato in Italia. E questo è vero. Assolutamente riuscita è anche l'ambientazione concentrazionaria e da “assedio” in una stanza dell'allora super-moderno Hotel Cavalieri Hilton di Roma. La stanza nella quale si barrica con una coppia di ostaggi dopo avere già sparato e ucciso a caso (una delle vittime è il bravo attore di teatro Francesco Carnelutti, il quale ritornerà poi in altri film di Damiani) con un fucile telescopico, un inizialmente e apparentemente squilibrato e sociopatico cecchino, interpretato da John Steiner a detta di tutti in una delle migliori interpretazioni della sua lunga e bella carriera in tutti i generi e filoni del cinema italiano degli anni '70. La sconveniente coppia è composta da Claudia Cardinale, moglie fedifraga di un ricco industriale, e il di lei giovane amante, un aitante biondo attore impegnato l'indomani nella lavorazione di un film, impersonato da Gianrico Tondinelli.

Tony Musante interpreta con molto convincimento e intensità il locale capo sezione della CIA a Roma. John Dannay, dopo l'inizio nel quale in una società di copertura si cela un distaccamento della CIA, i cui agenti si stanno riunendo sotto la direzione e l'organizzazione di Musante, per pianificare con alcuni ministri e alti ufficiali africani, un golpe nel loro stato, vicenda che poi andrà a convergere intelligentemente e inestricabilmente con quella precedente, grazie ad una sceneggiatura veramente intelligente e fortemente convincente, firmata da Damiani con il fidato e sempre incisivo Nicola Badalucco.
Bellissimo e giustamente meritevole di essere ricordato l'imprevedibile e sapiente, ma anche spettacolare, trascinante finale con i caschi integrali e gli impermeabili di plastica neri, sottolineato come tutto il film dalla splendida colonna sonora di Guido e Maurizio De Angelis, una delle loro partiture più celebri, e celebrate, soprattutto dagli appassionati negli Stati Uniti.

Sceneggiatura del film così ben congegnata che fa sì che esso sia anche superiore al libro da cui venne tratto, ovvero “Sulla pelle di lui” di Francis Clifford, pubblicato nella collana Segretissimo, della quale da alcune miei interviste qualcuno saprà, sono sempre stato un fedele e accanito lettore.
Molto buono, ben scelto e assortito, il cast: Renzo Palmer come vice di Musante, sempre piacevole e bravo, e addirittura il grande e dalla lunghissima carriera nel cinema classico americano John Forsythe, ahimè in seguito conosciuto soprattutto per il suo ruolo da protagonista in “Dinasty”, qui nel suo unico film italiano, nel ruolo per lui perfetto di un onesto e integerrimo ambasciatore americano. Forsythe avrebbe offerto un'altra grande interpretazione quattro anni dopo in “...E giustizia per tutti!” (...And justice for all) ('81) di Alan J. Pakula, con Al Pacino nel ruolo di cattivo del perverso e laido stupratore Giudice Fleming.

Steiner è sempre stato giudicato il migliore in assoluto della compagnia ed è vero, mentre oltre che della ottima sceneggiatura di cui ho già detto, non si può non elogiare anche la validissima, incisiva, tecnicamente eccellente regia di Damiani, che riesce a costruire con competenza e alla perfezione un meccanismo di tensione e di suspance per l'intero film, e in particolare per l'elaboratissimo, raffinatissimo, geniale piano di fuga notturno dal grandissimo hotel assediato dalla polizia, di John Steiner/Donald Grayson.
Molto validi e non da poco sono anche tutti i dialoghi, in particolare quello finale tra un disgustato e disilluso ambasciatore e Musante/Dannay macerato dalla coscienza, pur se in tutta la sua azione nel film contrassegnato da un cinismo e una perfidia di necessità, e soprattutto nei confronti del suo amico Harry Lambert, interpretato dall'allora sempre interessante Wolfango Soldati (nipote di Mario Soldati e importante attore del cinema di genere italiano, soprattutto con Enzo G. Castellari, e del quale nel dvd è contenuta una lunga e odierna intervista sul film) e anche sempre nel finale con il commissario/Ispettore Moreno interpretato da Fabrizio Jovine nel ruolo forse più importante e convincente della sua carriera, al di fuori dei film da lui interpretati con Lucio Fulci.

Il film vorrebbe essere anche un duro e tesissimo atto d'accusa sulle operazioni illegali compiute dalla CIA nei paesi esteri, che siano in un paese africano come qui in Italia, in questo pienamente in sintonia con il clima di quegli anni pochi mesi prima, alla sua uscita cinematografica, dal compimento con l' ”Operazione Fritz” di Via Fani, di una delle più grandi operazioni di questo genere effettuate in Italia, ai danni del povero nostro amato e amico Presidente Aldo Moro.

In una scena Anna Zinnemann guarda in tv lo splendido “L'Istruttoria è chiusa: dimentichi” ('73) dello stesso Damiani.

Nel film vi è anche in un piccolo ruolo di agente pedinatore per conto di Musante, e non accreditato, un giovane Alessandro Haber.

L'Andreottiano

The Punisher - Il Vendicatore

9

Nancy Everhard/Sam Leary
:- “Quanto tempo pensi che qualcuno possa vivere dopo avergli strappato il cuore?”
Dolph Lundgren/Frank Castle :- “Un lungo ... tempo.”

Dolph Lundgren/The Punisher :- “Ho da punire i colpevoli!”
Barry Otto/Shake[speare]:- “E come risultato devono soffrire gli innocenti?”

The Punisher :- “Ho ancora da parlare con Dio qualche volta, gli chiedo se quello che sto facendo è giusto o sbagliato, sto ancora aspettando una sua risposta, e fino a che non ne otterrò una, sarò in attesa, ben guardando, che IL COLPEVOLE DEBBA ESSERE PUNITO!”

Louis Gossett Jr./Jake Berkowitz :- “Come cazzo si possono definire 125 omicidi in 5 anni?”
The Punisher :- “Lavori in corso.”

Jeroen Krabbé/Gianni Franco :- “C'è un limite alla vendetta, lo sai.”
The Punisher :- “Credo solo di non avere ancora raggiunto il mio.”

Frank Castle :- “Se sei colpevole, sei morto.”

[Il Punitore viene torturato]
Kim Miyori/Lady Tanaka :- “Chi ti ha mandato?”
The Punisher :- “Batman.”

[Il Punitore è in procinto di essere torturati]
Lady Tanaka :- “Sai quanto dolore possono comprare 10'000 $?”
The Punisher :- “A questa domanda si può scegliere vero, falso,o a risposta multipla?”

Shake[speare]:- “Mio Dio l'uomo non può vedere? Questo è il risultato della tua quinquennale follia omicida! Hai indebolito i boss a tal punto che non possono più proteggere le proprie famiglie!”

Gianni Franco :- “Dì qualcosa.”
The Punisher:- “Vaffanculo.”

The Punisher:- “Andiamo Dio, rispondimi. Da anni mi sto chiedendo perché, perché sono morti così tanti innocenti mentre i colpevoli sono ancora vivi? Dove è la giustizia? Dov'è la punizione? Oppure mi hai già risposto, hai già detto al mondo che la giustizia è qui, ecco la punizione, qui, in me.”

Lady Tanaka :- “Voi americani avete una grande delle grandi capacità per violenza, ma è selvaggia, è sfocata. Imparerete.”

Lady Tanaka .- [rispondendo alla domanda: "Chi cazzo ti credi di essere?"] “Siamo Yakuza. Quando i vostri antenati erano ancora pastori che portavano le pecore a pascolare sulla costa mediterranea, i nostri erano i signori del crimine dell'Asia.”

Lady Tanaka :-” Era una domanda molto costoso quella che vi ho posto qui l'altra sera. Molti dei nostri più fidati erano persone che lavoravano per voi, ma ci è costato quasi $ 2 milioni per farli uscire di prigione .”

Sam Leary :- [come lei e Berkowitz si aggirano per le fogne per tana del Punisher] “... Allora come mai non hai mai rinunciato a Frank Castle, come hanno fatto tutti gli altri?”
Jake Berkowitz :- “Perché so cosa vuol dire essere abbandonato.”

The Punisher :- “Tu sei un bravo ragazzo, Tommy. Crescerai fino ad essere un uomo buono. Perché se non sara così...Mi incontrerai di nuovo.”

Gianni Franco :- “Quanto grave?”
Todd Boyce/Terrone (!) :- “Quanto è grave?”

Lady Tanaka :- “Ho un appuntamento e vi lascio nelle mani di Tomino. Egli non mancherà di tenervi in vita più a lungo di quanto possiate resistere. Arrivederci.”
[Lady Tanaka si gira e inizia ad allontanarsi]
The Punisher :- “Ehi!”
[Torna indietro]
The Punisher :- “Io vi farò fuori tutti.”


91 persone vengono uccise singolarmente sullo schermo in questo film, non compresi quelli che muoiono in massa nelle esplosioni, ecc

Era originariamente vietato in Sud Africa e poi fatto uscire direttamente in video, due anni dopo la sua uscita.

Dolph Lundgren ha fatto egli stesso la maggior parte delle sue proprie prodezze.

Questa prima, sfortunata trasposizione cinematografica del grande The Punisher/Frank Castle presenta un interessante punto di incontro tra il "super eroe" e "un uomo solo contro il mondo", cioè quel tipo di film che è venuto alla ribalta nei primi anni '70. Diversamente dalla maggior parte degli eroi di fumetti, il personaggio era originariamente presentato come un “cattivo”, il quale a differenza di Spider-Man combatteva i cattivi con la caratteristica di essere enormemente brutale e feroce egli stesso, oltre che strafottersene di tutta la leggerezza di questo mondo. Questo primo film del Punisher, addirittura in molti paesi intitolato come in Italia, “il Vendicatore”, è virato verso la maniera di fare violenti film d'azione e di vendetta degli anni '80, tra il voler essere un “film a fumetti" nel senso più goffo del termine, e un regolare "film d'azione", nel senso più trucido della parola. Questo primo film del Punisher venne realizzato dal grande montatore Mark Goldblatt nel lontano 1989, uscendo nelle sale senza fortuna (in Italia non arrivò, solo successivamente fu programmato da Raidue per “Sabato in giallo” o come cazzo si chiamava, e in prima serata[!]) forse perchè troppo presto o troppo tardi (appena un mese prima dell'uscita del celeberrimo “Batman” burtoniano) rappresentando un po' l'ultimo battito di coda di una certa concezione del cinema d'azione “alto” del decennio precedente che sta molto a cuore credo a tanti di noi. Mentre al contempo, si è trovato troppo in anticipo rispetto ai film tratti dai fumetti della Marvel che oggi fanno incassi comunque e sempre importanti, Questa trasposizione con Dolph Lundgren si mantenne di più nel versante puramente “action”. Un film d'azione puramente e piacevolissimamente B-Movie come e più dei contemporanei “Furia cieca” ('89) di Philip Noyce, o “Die Hard -Trappola di cristallo” ('89) di John McTiernan, in realtà un vero “Guilty pleasure” del divertimento. Inoltre, Dolph Lundgren è abbastanza credibile pur con i capelli tinti di nero per esigenze di impersonificazione di Frank Castle, nei panni di un uomo in grado di battersi da solo come un'intero esercito.

La nostra storia inizia con una esposizione sotto forma di notiziari nei quali si sente che Frank Castle è tornato, come fosse direttamente il “Ritorno del Cavaliere oscuro” Benvenuti a tutti. Ci viene detto che Frank Castle è stato creduto morto negli ultimi cinque anni, poi la seconda storia è per ricordare ai cittadini che... da qualche parte (il personaggio e la trama sono ambientati a New York, ma questo è stato girato in Australia e nulla sembra ancora solo vagamente come New York. Intanto, ben 150 mafiosi sono stati uccisi negli ultimi cinque anni . Mentre questo è un modo piuttosto spiccio per proiettare velocemente gli spettatori al centro della storia soprattutto dato che il testo lentamente ma era stato perfezionato, è anche abbastanza ben fatto per lanciarci direttamente negli avvenimenti successivi. Zoppa come sono il 99,9% delle origini delle storie super-eroi, in quella del Punitore è particolarmente evidente fin dall'inizio come la sua famiglia che venne uccisa, è stata soprattutto uno stratagemma per i narratori affinchè lui uccidesse centinaia di mafiosi, per cui complimenti a questo film per non essersi neppure preoccupato di darci 30 minuti di un Dolph Lundgren rattristito e dai capelli tinti. In ogni caso, questo porta subito dopo all'intervista di un mafioso,Dino Moretti interpretato da Bryan Marshall, il quale mette in dubbio l'esistenza del Punitore. Ancora una volta, a questo punto ha già ucciso più di 150 mafiosi..

Questo brutale film di vendetta presenta un alquanto singolare stratagemma del Punisher per attirare e far uscire allo scoperto, l'informatore ubriacone a suo amico Shake[speare], interpretato da Barry Otto. Siamo arrivati quasi immediatamente ad ottenere un bel pezzo di azione quando il mafioso va a casa sua e gli scagnozzi della villona vengono uccisi uno dopo l'altro, senza mai mostrare in faccia il Punitore, dobbiamo solo vedere il suo braccio appendere un sicario per il collo e un suo calcio che ne scaraventa un altro giù da un balcone, mentre la villa viene fatta a pezzi dagli scambi di colpi di mitragliatrice. Uccide il capo mafioso, e questo già sembrerebbe come la conclusione di un film molto duro, ma non siamo neanche a dieci minuti! La vera storia, si scopre, segue una donna boss della Yakuza, interpretata efficacemente da Kim Miyori, che si muove per prendere il controllo del crimine organizzto della____ città, sfruttando il vuoto di potere creato dalle azioni del Punisher il quale uccidendo oltre un centinaio di mafiosi ha decimato le “famiglie” dell'Organizzazione. In un primo momento, il Punisher sembra lasciare freddamente l'iniziativa alla Yakuza che sta uccidendo più mafiosi per lui, dimostrando che non ha davvero pensato questa cosa come un “punizione” attraverso la sua opera. Tuttavia, quando il Punitore scopre che la spietatissima, disumana boss della Yakuza ha rapito gli innocenti bambini figli dei mafiosi, decide di fare spazio nella sua fitta agenda di vendicatore, alla liberazione di tutti i ragazzini incolumi.

Alla fine della visione, The Punisher” è un bel B-movie divertente di vendetta della fine degli anni '80/primi anni '90, quando la paura del tutto irrazionale che il Giappone prendesse tutti i migliori posti di lavoro e le imprese degli Stati Uniti, anche grazie all'apporto della mafia, era molto presente in alcuni film del periodo. Nessuno avrebbe immaginato che sarebbero poi invece stati i russi (tra l'altro nei tempi odierni veramente un popolodi m. , non di certo come i giapponesi) a prendersi tutti quei posti di lavoro dopo la caduta del muro di Berlino. Si tratta di una motivazione senza cervello tipica dei film d'azione e di vendetta di quegli anni, mentre le reali ragioni per le quali il Punisher si lascia far coinvolgere iniziano ad essere abbastanza fragili, almeno fino a quando la sua ex-partner viene anch'essa coinvolta, e si hanno un paio di sotto-trame che, letteralmente, vanno da ben poche parti, probabilmente a seguito di nuovi sviluppi nel mondo finanziario e geo-strategico del periodo, e dell'immagine che ne avevano gli americani al tempo...No, scherzo. “Il Vendicatore”, secondo il ridicolo titolo italiano, ha anche la lunghezza del perfettp B-movie finisce bruscamente alla boa degli 89 minuti (la versione theatrical). Ma per tutta la sua durata, è innegabilmente molto piacevole e distraente. C'è qualche buona battuta e dialogo (anche scritte dallo stesso Lundgren, che vi rimise completamente mano), le scene d'azione sono ben messe insieme e ben realizzate, il montaggio è ovviamente ottimo tratattandosi di uno dei più grandi montatori in assoluto del cinema americano, soprattutto d'azione e anche mainstream, e la trama dietro tutto ciò è solida e dinamica. Vorrei che i cattivi fossero stati caratterizzati in maniera migliore, ma anche si Lady Yakuza è abbastanza generica, il personaggio che ne ottiene Kim Miyori però si ricorda, oltre che un paio di mafiosi direttamente interpretati da Bryan Marshall (Dino Moretti), ma soprattutto da Jeroen Krabbé (Gianni Franco), il quale con la sua sola presenza nei film americani di quel periodo, valeva ampiamente la visione. Dolph fa un buon lavoro nei panni non semplici di Frank Castle, è spaventoso e come sempre i suoi personaggi, non parla molto, che è già davvero tutto il necessario per il traumatizzato e sociopatico personaggio di giustiziere del Punisher . Louis Gossett Jr. interpreta il poliziotto che era il vecchio partner di Castle, e come sempre trattandosi di lui, offre un'interpretazione solida anche di una parte davvero debole.

Il film è stato conosciuto per essere particolarmente terribile nella comunità dei fumettari, probabilmente perché non è veramente un film fumettistico. Punisher in questo film non usa molto in termini di armi, facendo affidamento sulle arti marziali e il combattimento corpo a corpo più brutale, per le più sequenze estese, e più in particolare, non ha una maglietta nera con il teschio bianco dentato che è per il Punisher come la S sul petto per Superman. Lui non ha nemmeno una maglietta con il famoso teschio. Noi non vediamo mostrato un singolo segno di quelli che sono caratteristici del personaggio del Punisher... così come Garth Ennis avrebbe rivitalizzato e ricreato nel 2001. Non include neppure quei riferimenti anche inutili che solo i nerd dei fumetti avrebbero voluto ottenere dal film.

Si tratta di una diversificazione quindi abbastanza divertente e ottenuta con una sceneggiatura sorprendentemente decente e superiore alla media di quelle poi realizzate, così come il regista Goldblatt ha continuato a essere un montatore di grande successo e lo sceneggiatore Boaz Yakin ha scritto e diretto grandi progetti per la Disney, tra cui”Il Sapore della vittoria” e “Prince of Persia”. Onestamente questa prima versione cinematografica mi piace (come del resto e molto, anche le due successive, quella del bravo Jonathan Hensleigh del 2004, e soprattutto, la più bella e riuscita, quella di Lexi Alexander del 2008, Punisher: War Zone”) probabilmente solo perché sono completamente stanco delle storie cinematografiche che traggono origine a iosa dai fumetti, di oggi.


Citazioni memorabili:

Jeroen Krabbé/Gianni Franco:- “C'è un limite alla vendetta, lo sai.”
Dolph Lundgren/The Punisher:- “Credo solo che non ho ancora raggiunto il mio.”

Kim Miyori/Lady Tanaka :- “Voi americani avete una grande capacità per la violenza, ma è selvaggia, è sfocata. Imparerete.”

The Punisher:- “Tu sei un bravo ragazzo, Tommy. Crescerai fino ad essere un uomo buono. Perché se non sara così ... Mi incontrerai di nuovo.”

Valutazione body count: 150 omicidi su un massimo di 300.

La VHS tedesca omette alcuni dei sanguinosi impatt dei proiettili. L'uccisione dell'esercito di Samurai nella torre Yakuza è stato completamente rimosso. Li vediamo solo stesi a terra.

C'è una “Workprint” completamente “Uncut” del film che comprende oltre 15 minuti di filmato in cui si sviluppa una ulteriore trama del personaggio di Frank Castle. Queste scene sono state tagliate nel montaggio finale, e le sequenze di questo filmato sono state in seguito incluse nel montaggio della morte della famiglia di Frank Castle nel film. Questa workprint è stato pubblicata come bonus nella Special Edition 2 Disc pubblicara nel 2006 dalla XT-Video (Austria).

La versione R2 pubblicata in Germania (dalla Starlight Film - Ungeschnitten) è tagliata di un secondo. Manca un primo piano della testa della baby-sitter (la faccia) e il suo successivo scivolamento verso il basso, dopo essere stato colpita (1 sec). E' stato anche rilasciato un rating inferiore rispetto al divieto ai minori di 16 anni dalla FSK (l'ente di censura tedesco) grazie a un taglio di circa 5 minuti di violenza.

Le versioni cinema UK cinematografiche e video sono stati ridotte di 1 min e 21 sec. con le modifiche alle scene di violenza, tra cui dei colpi e delle ferite da coltello insanguinato, accoltellamenti alla gola, lo strappo di un orecchio, una rottura del collo, una mano tagliata, e un colpo di pistola in bocca a un uomo.

La versione video finlandese è tagliata di 11 minuti.

Il DVD uscito R1 in Usa (Artisan), R0 in Corea (New World International) contiene la "R-Rated Theatrical Cut”, i cui tagli sono:
  • La mano di un marinaio tagliata sullo yacht (1 sec.).
  • Il primo colpo in testa della baby-sitter (in faccia) e il suo corpo che scivola, dopo essere stato colpito (2 secondi).
  • La guardia del corpo del gangster che viene colpita seduta in un ristorante, un sacco di sangue (4 secondi).
  • Mr. Franco che spara ad una guardia a palazzo Tanaka, piano ravvicinato del colpo in testa (1 sec).
  • Il Punitore che prende a calci una guardia nella stanza rossa,(1 sec).


Tutte le sequenze di combattimento sono state improvvisate dagli attori per dare ai combattimenti un senso di realismo.

The Punisher non usa mai la stessa arma due volte. Egli inoltre se le lascia alle spalle una volta scariche, senza alcun motivo.

Dolph Lundgren ha scritto i monologhi del Punitore, all'inizio e alla fine.

Le auto della polizia sono Valiants australiane convertite alla guida a sinistra. Ci sono 2 modelli che si vedono nel film, le VK CL del 1976 e 1977.

Nella sequenza d'apertura, sopra l'entrata di un cinema, è visibile il poster del film "Make Them Die Slowly", meglio conosciuto come “Cannibal Ferox” ('81) di Umberto Lenzi.

Il film è uscito nelle sale di tutto il mondo, tranne che negli Stati Uniti a causa del fallimento della New World Pictures, e in Svezia a causa della censura (ma sarebbe arrivato più tardi in video). E ha avuto una proiezione in 35 millimetri negli Stati Uniti l'8 luglio 1990 alla LA Comic Book e Science Fiction (in un triple feature con il pilot della serie di "The Flash" della CBS-TV e "The Guyver") e poi il 18 Ottobre 2008 presso il Festival del Cinema di Evasione , a Durham (NC), dove il regista Mark Goldblatt ha portato la sua propria copia a 35mm (così come Dolph Lundgren al Devo Break Fest il 18 Aprile 2009 presso il nuovo Beverly di Los Angeles).

Durante un flashback che Frank Castle ha sulla sua famiglia, le sue figlie indossano entrambe un pigiama di Spider-Man. Il regista Mark Goldblatt ha fatto questo per rendere omaggio a Spider-Man. La prima apparizione di The Punisher fu nel N° 129 di Amazing Spider-Man # 129, del febbraio 1974.

C'era una scena girata, ma tagliata dal film, che mostra Frank Castle, quando era ancora un poliziotto, arrestare il boss Dino Moretti (il mafioso che lui uccide all'inizio). Tuttavia, ci sono nel film ancora allusioni a questo avvenimento. Quando Sam Leary si presenta a Berkowitz, lei accenna al fatto che avevano lavorato insieme alla cattura di Moretti ("Sono stata l'infiltrata."). E sia il DVD che la versione in VHS del film hanno ancora una foto sulla copertina caratteristica di quella sequenza con Castle in camicia blu jeans e con due pistole, Berkowitz, e Leary (nel suo travestimento da prostituta).

La band Metal Thrash di New York dei Biohazard ha campionato di uno dei dialoghi di “The Punisher” inserendoli nell acanzone "Punisher" la parte campionata tratta dal film è il monologo di Dolph Lundgren : “Andiamo Dio, rispondimi. Da anni mi sto chiedendo perché, perché sono morti così tanti innocenti mentre i colpevoli sono ancora vivi? Dove è la giustizia? Dov'è la punizione? Oppure mi hai già risposto, hai già detto al mondo che la giustizia è qui, ecco la punizione, qui, in me.”

Visto che non aveva assolutamente alcun coinvolgimento con la creazione del personaggio del Punisher originale, questo è uno dei pochi film basati su un fumetto della Marvel nel quale Stan Lee non appaia in un cameo.

Questo film è considerato un "Ozploitation" (un film di genere australiano).

Il Produttore Robert Mark Kamen ha rivisto e riscritto la sceneggiatura originale di Boaz yakin per compiere alcune modifiche tra cui l'aggiunta di un prologo -alla “Letal Weapon”(Arma letale) ('87) di Richard Donner, il quale è stato anche girato, ma alla fine omesso in sala di montaggio, lasciando solo dei flashback, come nello script iniziale di Yakin.”

Napoleone Wilson

martedì 24 gennaio 2012

Dawn of the dead - Zombi

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Cos'è un'opera definitiva? Quella che, appunto, definisce, pone le regole per un genere intero. Regole con cui sarà obbligato a confrontarsi chiunque voglia approcciare una determinata tipologia di film. E non solo le semplice regole di base, ma anche i topos, tutti quegli elementi destinati, in futuro, a tramutarsi in stereotipi.

In questo senso, non esiste pellicola più definitiva di Zombi (Dawn of The Dead). In misura anche maggiore rispetto al suo predecessore, quel La Notte dei Morti Viventi che cambiò per sempre la rappresentazione del ritornante al cinema, Zombi è a fondamento, a pilastro e a modello per tutto ciò che è arrivato dopo. Se qualche novità c'è stata, l'ha introdotta Romero stesso, insieme forse a O'Bannon, che comunque paga a Romero tutti i dovuti debiti. E no, lo zombi velocista non è una novità di rilievo, non a livello contenutistico, non a livello estetico, ché il far correre il morto vivente non è altro che un pietoso escamotage per veicolare lo spavento facile, attraverso il riflesso condizionato del balzo sulla sedia.

Questo per dire che dove è arrivato Romero, con questo film, il genere dell'apocalisse zombi si è fermato e non ha potuto fare altro se non copiare, o ispirarsi a. Nulla di male in questo. Ottimi film di zombi sono arrivati dopo Dawn of The Dead, ma tutti definiti dall'opera del 1978. L'originalità non è un valore in sé, non è un difetto essere derivativi, ma va comunque premiata, o almeno, ricordata. Ed è giusto ricordare che ogni cosa che siamo abituati a vedere quando assistiamo a un film di zombi, sta lì perché Romero l'ha pensata, scritta e girata nel 1978.

Se ne La Notte dei Morti Viventi l'apocalisse poteva ancora sembrare un evento circoscritto, e la minaccia sconfitta dopo la terribile nottata del titolo, in Zombi, ci viene raccontata la fine della civiltà come noi la intendiamo. A partire dal crollo dei mezzi di comunicazione (il film comincia in uno studio televisivo), fino ad arrivare all'abbandono e alla devastazione delle grandi città. Lo stadio dello sfascio del mondo è ancora quello iniziale, in cui predominano l'incredulità e il continuare, in maniera ottusa, a far finta che le cose non siano cambiate. Eppure, il processo è già irreversibile. E la sequenza che ci informa di come non sia più possibile tornare indietro è quella dell'irruzione nel palazzo dove si nasconde il gruppo di portoricani. La visione di quei cadaveri che si agitano come lombrichi, avvolti nei loro sudari, basta e avanza per farci capire che la società è morta e con lei qualsiasi forma di umana pietà, nonostante quello che si ostinano a raccontarci i partecipanti ai dibattiti televisivi e nonostante la battuta del prete, entrata di prepotenza nella storia del cinema: "quando i morti camminano, bisogna smettere di uccidere, signori, altrimenti si perde la guerra". E la guerra è persa in partenza, dato che di smettere di uccidere non se ne parla.

Se per molti registi di cinema dell'orrore il mezzo principale per atterrire lo spettatore è lo spavento (non la paura, che è cosa più sottile), Romero utilizza invece l'angoscia. Angoscia che corrode le speranze dei vivi e fuoriesce dai lamenti e dalle movenze meccaniche dei morti, che investe le luci colorate e la musichetta di sottofondo del centro commerciale, evidente anche nei tentativi di simulare una vita normale del manipolo sparuto di sopravvissuti, che proprio nel centro commerciale trova un momentaneo e illusorio rifugio. E ricordiamo che non saranno gli zombi la vera minaccia, destinata a infrangere le pareti di quel paradiso artificiale, ma un gruppo di vivi. Elemento che nel remake del 2004 non si è avuto il coraggio di riproporre, affidandosi al caos action della fuga a bordo dei furgoni, e ai simpatici cagnolini che stanno lì a rassicurare su come la fine del mondo non sia poi questa brutta cosa, basta avere buona compagnia. Invece Romero vuole lasciare lo spettatore da solo di fronte alla desolazione di un mondo che non è più, affidandosi ai volti e agli sguardi dei suoi quattro protagonisti, e molto poco ai dialoghi e alle spiegazioni.

Romero non è mai stato un virtuoso della macchina da presa. E' un narratore. Più che utilizzare inquadrature sofisticate o movimenti di macchina da slogamento di mascella, preferisce raccontare una storia e rimanere stretto sui personaggi, sulle loro motivazioni e sulle loro paure. Ma resta pur sempre un narratore per immagini e ognuna di queste immagini ha una sua precisa funzione, è messa lì a servizio della storia ed esiste solo per permettere al regista di farci comprendere ciò che sta accadendo e perché stia accadendo. La staticità di Zombi è solo apparente, come del resto la presunta mancanza di azione. Se Romero non perdesse tempo a costruire con metodo e amore il rapporto di amicizia che si instaura tra Peter e Roger, non sarebbe così straziante la scena in cui uno è costretto a uccidere l'altro, anche perché il tutto avviene senza strepiti o melodramma da operetta e, soprattutto, senza ripensamenti o dubbi morali un tanto al chilo. La pratica se sia giusto o sbagliato eliminare i nostri amici una volta trasformati in zombi è già stata archiviata nei minuti iniziali del film e il personaggio interpretato da un immenso Ken Foree è così disilluso, così sfiancato da quell'angoscia che resta attaccata a ogni fotogramma come una seconda pelle, che non ci serve vederlo disperarsi o piangere la morte dell'amico. Ci basta un colpo di pistola. Fuori campo, per giunta.

Anche l'ambientazione, il famoso centro commerciale su cui sono stati versati fiumi di inchiostro a dimostrazione della sua valenza metaforica, non necessita di spiegazioni o di trattati messi in bocca ai personaggi. Tornano qui perché questo posto era importante per loro. Punto. Le interpretazioni, i sottotesti (che pure ci sono, non va negato), i significati sociopolitici attribuiti, sono arrivati dopo. Ma Romero mette in scena, non giustifica. Romero fa cinema: un'operazione che può sembrare anche semplice e schematica, ma che nasconde un lavoro di asciuttezza e rigore impossibile da trovare in pellicole contemporanee. Ed è forse questa la maledizione che si porta dietro un'opera definitiva come Zombi, il destino di essere continuamente plagiata, copiata e riproposta senza essere compresa, ché quasi nessun film di zombi uscito dopo il 1978 è stato in grado di farci percepire la struggente nostalgia di un passato perduto per sempre, e l'ansia profonda per un futuro che non esisterà mai più, utilizzando solo quattro personaggi cristallizzati in un eterno e squallido presente.

Lucia

lunedì 23 gennaio 2012

The Help

24

Mi scuso per il poco tempo a disposizione, è che ci tengo in tempi brevi a segnalarlo. Quindi poca "recensione", questa è soprattutto una segnalazione e un consiglio ad andare al cinema a vederlo.

Ricavato dal libro omonimo scritto da Kathryn Stockett, bestseller negli Stati Uniti uscito pure da noi come "L'aiuto", è la storia di come una cameriera di colore degli anni '60 è arrivata a scrivere un libro, che narra di come una donna bianca ha scritto un libro sulla condizione delle donne negre (questa la parola che si usava) a servizio nelle case dei bianchi ricchi. Dov'è ambientato? In quello che, tra tutti i buchi di culo più neri del razzismo era il più nero di tutti, parliamo della città di Jackson ovviamente. Si citano nella storia quello che avveniva nel resto d'America, era il periodo di J.F.Kennedy e di Martin Luther King...

Non so dire ora se il libro e quindi il film è perlomeno ispirato a una vicenda vera, comunque sia è bellissima a vedersi.
Skeeter, una splendida ragazza bianca (Emma Stone, troppo carina) fatica a trovare marito per i suoi modi liberi. Ha due lauree, lavora come giornalista, ha ambizioni di scrittrice, mal tollera e non comprende il razzismo... un outsider in quei luoghi dove il conformismo è sovrano, il razzismo pure al punto che lo stato del Mississipi promulga ancora leggi pazzesche in barba alla costituzione stessa degli Stati Uniti. Avrà una grande idea: pubblicare un libro sulla condizione delle donne di colore, intervistandole, donne che lavorano al servizio dei bianchi come cameriere, gli crescono i figli, donne maltrattate al lavoro e pure dai mariti a casa. Skeeter faticherà a trovare chi collabori con lei, anche perché rischiano tutti la galera secondo la legge che vieta persino questo! Alla fine troverà Aibileen (Viola Davis, bravissima), poi Minny (Octavia Spencer, vulcanica) che racconteranno le loro storie di malversazioni subite ma anche di piccole vendette. La stessa Skeeter troverà in casa sua una storia da raccontare. In seguito a un evento importante, tutta la comunità nera, clandestinamente per necessità, troverà il modo di contribuire. Ovvio che, con la pubblicazione del libro, si alzerà un gran polverone.

Mi spiace non poter dire altro, poi sul razzismo ce n'è da dire, su quello che era ancora solo 50anni fa. Poco male, ve lo lascio godere per intero.
Il film non ha propositi tragici. Un omicidio del Ku Klux Klan sfiorerà la vicenda, ma lo vedremo come "orrore fuori campo". Si sottolinea quella che può essere la forza di una minoranza maltrattata e di come riesce con coraggio e forza a risorgere. Niente di che dal punto di vista puramente "cinefilo", struttura della trama e sua esposizione molto classica che punta alla "sicura presa" e ci riesce. Va detto che la ricostruzione ambientale e dei costumi del tempo è di una cura ed eleganza encomiabili e priva di forzature. Si bada ai contenuti, a proporre un messaggio che può a mio parere essere ancora utile a tutti e non solo a quelli che erano ancora schiavi ai tempi. Tiene desta la memoria su argomenti che non vanno mai dimenticati, perché la mamma del razzista è sempre incinta, mai abbassare la guardia.

Bello. Ci sono anche momenti di commedia divertenti. Vale il prezzo del biglietto e fa uscire dal cine con un sorriso, un ricordo e un pensiero. Decisione dell'ultimo minuto quella di vederlo, sono arrivato al cine del mio paese e c'era una coda mostruosa! stupore che presto m'è passato: era la coda per "benvenuti al nord", ma vaff... però alla fine s'è riempita anche la sala (quella piccola, certo) per questo gioiellino, e questo è incoraggiante.
Robydick

Tre metri sopra il cielo

48

Non importa se la storia di Baby e Step non mi coinvolge, se sembra uscita dal peggiore Harmony, lui con giacca alla Marlon Brando ribelle violento ma dal cuore d'oro e lei, ragazzina tutto pepe, ma ancora vergine con il sogno del principe azzurro.

Come diceva Marco Masini, tanto per citare sottocultura bassa: “T'innamorerai di un bastardo che ti dirà bugie”. Beh a dire il vero Step bugie non le dice, ma ha, dietro quel sorriso sornione da cattivo ragazzo, un segreto che si porta nel cuore e che ha a vedere con la mamma. Eh sì i figli so piezz'e core, siamo in Italia d'altronde, e la mamma insieme alla lasagna è la cosa che non si può toccare, lo diceva Claudio Villa, Edoardo Bennato, le pistolettate di Mario Merola contro la faccia di gran cagnaccio di Gigi D'Alessio.

Baby e Step come Mirco e Licia si scontrano e s'incontrano per innamorarsi sotto la visione piagnucolante di uno stuolo di ragazzine che questa storia l'hanno letta o ascoltata e ora vogliono riviverla al cinema sospirando dietro gli occhi di ghiaccio di uno Scamarcio pre impegno sociale, pre Prima linea, pre Banda della Magliana, pre Turco frocio, pre tutto. E' tutto finto e precotto, le peggiori banalità dietro l'angolo, l'idea da piccolo borghese di un universo dove i ricchi sono buoni e i coattoni bestie, simpatiche ma sempre bestie. Alla fine anche Step è come quei ragazzi finto alternativi che incontravi all'università vestiti di stracci e poi ti dicevano “Io per questi pantaloni sporchi di vomito ho speso 500 cento mila lire”. E tu in tasca davvero non avevi neppure i soldi per il caffè.

Ma vogliamo parlare della regia? Il film di Luca Lucini è girato con le chiappe e mi immagino che nell'impartire ordini agli attori scoreggiasse al posto di parlare. Montaggio che sì, salva un po' capre e cavoli, ma dannazione i pestaggi, gli inseguimenti, le scene d'azione sono da mettersi le mani nei capelli. Sì perché come ogni buon spettacolo popolare che si rispetti non basta lo zingaro a petto nudo, ma ci vogliono duelli a bagnare le mutandine di donne affamate di avventure, e quindi via di scene con moto che dovrebbero ricordare Gioventù bruciata e sembrano invece una parodia di Ezio Greggio. In più uno si dice, ma prendi un'attrice americana e perché la fai doppiare da una scimmia senza dizione?

Di questo film esiste un remake spagnolo che, udite udite udite, fa sempre schifo, ma è girato benissimo. A sto punto se siete in vena di masochismi cinematografici puntate su quello. E aggiungo la protagonista Maria Valverde vale più di questa borghesotta romana. Sarà il sangue caliente spagnolo, sarà che è la Melissa P del brutto film, ma madonna vorresti metterla a pecorina fottendotene di Step, di Harmony e di tutte ste stronzate mocciane che avranno la loro miserabile catarsi in Amore 14, manifesto di una pedofilia accettata da tutti.

Potrei finire dicendo che Scamarcio/Step ritorna in Ho voglia di te, ma stavolta non mi fregano. Ho chiuso con 3msc e tutto sto stronzo linguaggio da sms con tvb, k al posto di c e una fastidiosa di radio a commentare le vicende patetiche di personaggi insapori.
Keoma